R. Pagotto: Stefanini e Vattimo a proposito di metafisica

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RISPOSTA A VATTIMO Nel suo ultimo libro Della realtà. Fini della filosofia (Garzanti 2012, pp. 234), G. VATTIMO riprende la tesi della fine della metafisica. Lo fa, come di consueto, rifacendosi a Nietzsche e precisando, sulla base del frammento nietzscheano Nichilismo europeo (1887), che la fine della metafisica comporta l’azzeramento del concetto stesso di verità. Tale compito va affidato, diceva Nietzsche, parole sue, “ai più moderati, quelli che non hanno bisogno di principi di fede estremi, quelli che non solo ammettono, ma anche amano una buona parte di caso e di assurdità”. Per Vattimo dobbiamo abbandonare la metafisica perché rappresenta l’espressione di una raggiunta verità  ultima, come fondamento intrascendibile di ogni altra verità, con l’assurda pretesa di dirsi definitiva. La metafisica costituirebbe volontà di dominio su tutto il sapere e pertanto forma di violenza su ogni altra verità. Invece, rileva ancora Vattimo interpretando Nietzsche, il vero moderato che può incaricarsi di oltrepassare la logica dei principi assoluti è l’artista, colui che nell’arte vede il compiersi del suo desiderio di vita, non come verità formale e astratta, ma concreta, esistenziale. Ebbene, siamo nelle vicinanze della posizione di Stefanini che, guarda caso, si espone sul terreno non tanto di una metafisica ma di più metafisiche che vanno ad integrarsi in una sintesi che non è affatto dichiarazione di una verità definitiva ma di una ricerca continua, una skèpsi, com’egli dice, che s’incentra sul vissuto della persona. Come tale, diversa da individuo a individuo, nella “singolarità” da cui tutto prende significato. Vattimo non considera che può esserci una metafisica diversa da quella che egli intende oltrepassare e che si riferisce a certe metafisiche del passato. Se è vero che occorre abbandonare il concetto stesso di verità, attorno al quale si sono costituite le metafisiche del passato e se è vero che dobbiamo reimpostare la filosofia come ricerca di un metodo per intendersi e dialogare tra le diverse esperienze che ognuno di noi intrattiene con la realtà storica che sta vivendo, allora è quasi paradossale che un punto di convergenza significativo con quanto dice Nietzsche sul compito dell’artista, trovi proprio in Stefanini un codificatore che spiazza i metafisici tradizionali.  Nell’io, secondo Stefanini, riscontriamo la necessità del dirsi per essere se stessi, necessità di diventare parola espressiva per non chiudersi in se stessi. Il paradossale di questa metafisica è che nella necessità  del dirsi, l’io si scontra con la inevitabilità dell’indicibile. L’io è un indicibile che ha la necessità continua del dirsi e che, pertanto, non essendo la sua una verità definitiva, ma un incessante ricercare, non può rinunciare a riconoscersi non fondamento di se stesso bensì prospettiva insostituibile di un cammino unico, con l’impossibilità di fermarsi a qualsiasi punto del suo cammino. Anche per questo Stefanini non si ferma ad una sola metafisica, ma ne indica almeno tre. Il cammino dell’io ha bisogno di infinite prospettive e, guarda caso, come Vattimo individua con Nietzsche l’artista, ricercatore della bellezza e non formulatore teorico di una verità, anche Stefanini costruisce una metafisica proprio intorno al cammino dell’arte, spiazzando i tecnici dell’estetica che si richiamavano a Croce. Quasi a dire, con Platone: “vuoi raggiungere la verità?” incomincia dalla bellezza. Quindi è vero che la metafisica può indurre ad un concetto di verità ultimativa, cosiddetta forte, che giudicherebbe tutte le altre come inferiori alla propria, ma non è questo il senso da dare alla metafisica autentica. La stessa parola metafisica dice “al di là della fisica” e chi va al di là della fisica è destinato a protendersi sull’invisibile, oltre la concretezza sensibile e pertanto in continuo movimento oltre se stessi. Tale metafisica non è stasi, non è verità statica. Perciò da un lato Vattimo ha ragione nel togliere la connotazione di staticità e di inamovibilità del fondamento ultimo che la metafisica dà l’impressione di voler essere, ma nello stesso tempo dimentica che la ricerca continua della verità è l’unica verità (o, se preferiamo, l’unico metodo) alla portata dell’uomo. Allora, perché chiamarla verità e non soltanto ricerca? Perché è fiducia nella ricerca, come tale è rifiuto dello ‘scetticismo per principio’, è rifiuto di un relativismo chiuso in se stesso, come Claudio Magris giustamente ha segnalato di recente (“Corriere della sera”, 23 febbr. 2012). Per tornare sul discorso della metafisica, ecco allora che la necessità dell’io di dirsi per essere se stesso deve affidarsi al discorso. La parola è la cifra che dobbiamo chiamare metafisica perché di necessità deve oltrepassare anche il segno materiale, la forma del dirsi. Per questo Stefanini affianca alla metafisica dell’arte un’altra metafisica, quella della forma, che non è mai forma ultima ma sempre rimando ad un cercare oltre se stessi. Quindi l’io è veramente se stesso quando cerca il fondamento di sé al di sopra e al di fuori di sé. In se stesso avverte la necessità di riferirsi ad un Essere che lo oltrepassa. Se con Vattimo occorre abbandonare la metafisica occorre chiedersi di quale metafisica si tratti. La risposta sarà: quella dell’io che si chiude in se stesso e che non si riconosce dipendente nel suo essere da un Principio che lo trascende. Per questo, le tre metafisiche di Stefanini, anche nel loro essere multiple, introducono l’idea che la metafisica non è definitività bensì continuo abbandono dei vari terreni in cui ci insediamo con i nostri linguaggi e, quindi, un abbandonare se stessi per trovarsi nel Principio di cui nulla sappiamo, ma del quale partecipiamo l’azione produttrice, concreatori della realtà nell’atto stesso con cui parliamo ossia diamo forma  alla  parola. Nell’atto di formulare la parola non ci leghiamo a nessuna parola, perciò a nessuna verità formalmente definita. Il  principio di tutto, Essere indefinibile e indicibile, ha in se stesso la necessità di dirsi, di esprimersi, di uscire da sé. L’arte riproduce quella forma dinamica di vita. Giustamente diremo che occorre l’oltrepassamento della  metafisica, ma nel senso dell’oltrepassamento dell’io. Si fa strada, così, il concetto di amore di cui non esiste alcun concetto ma che introduce al senso stesso della vita. La vita come amore è tensione continua di un Amore assoluto in cui superarci.  R.P.

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