R. Pagotto Il problema dell’imaginismo in Stefanini

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Introduzione di Renato Pagotto a DIALETTICA DELL’IMMAGINE, Studi sull’ imaginismo di Luigi Stefanini, ed.  Marietti, Genova 1991, pp. 272.

Questo volume porta all’attenzione, in occasione del centenario della nascita di Luigi Stefanini, il tema piú impegnativo del grande interprete italiano di Platone: il problema dell’immagine.

Il perenne interrogarci su “che cos’è o che cosa non è ciò che mi appare?” si è delineato nel corso della storia sempre piú come problema ultimativo, sia nella sapienza orientale – nel buddhismo trovò una risposta, piú pratica che speculativa, sul come salvarsi da ciò che si rivela impermanente e quindi illusorio – sia nella filosofia occidentale, con risposte prevalentemente speculative, almeno a partire da Parmenide e Platone.

Per Stefanini, in area occidentale, il problema rimane sempre aperto: ogni nuova generazione, ma soprattutto ogni singola persona,  ha davanti a sé la necessità di riproporselo[1]; innanzitutto come senso del linguaggio, ossia della parola, immagine per essenza, che continuamente muta[2]. Egli lo considera nodale nella ricerca filosofica e lo denomina: problema dell’ “imaginismo”[3].  

 

Nella sua dialettica conoscitiva entro cui il significato si costituisce e si dissolve, come nell’enigmatico gioco della vita e dell’esistenza, l’immagine attrae e distrae, fissa e rinvia, costringe e lascia liberi.

Se fosse consentito distinguere in raggruppamenti le posizioni speculative nei confronti dell’immagine, ci troveremmo in una contrapposizione analoga a quella del sec.IX, con gli iconoclasti che accusavano di eresia gli iconografi. Eppure, la confusione da dirimere tra fautori e detrattori dell’uso dell’immagine, deve comunque fare i conti con il linguaggio, sede naturale dell’immagine[4]. Il problema pertanto non è se vi sia alternativa all’uso dell’immagine, non essendoci alternativa all’uso del linguaggio, ma quale sia il senso dell’uso dell’immagine, essendo quest’uso coessenziale al discorso linguistico[5].

Le risposte possibili sono tre ed hanno ascendenza platonica: l’immagine è fine a se stessa come il nome che fa tutt’uno con la cosa nominata, ed è reificazione; l’immagine non è fine a se stessa ma rinvia indefinitamente ad altre immagini, ed è la dissoluzione stessa dell’immagine, il suo annullamento semantico; l’immagine è rinvio, non indefinito ma strutturale, del processo simbolico operato dall’intelligenza che ne unifica i molti sensi iniziali, da cui si innalza nella tensione semantica del rapporto analogico. A questo terzo tipo di uso dell’immagine è riconducibile Stefanini. Egli aderisce al parlar per immagini di Platone lì ove si cercano verità ultime sul bene, sull’anima, sulla formazione del mondo, sulla costituzione dello stato. Un linguaggio modulato sul “verosimile” anzichè su tesi ontologistiche che trovino adeguatezza tra i piani dell’essere e della conoscenza[6]. Per Platone “il verosimile (eikón) diventa il punto d’incontro e di pacificazione del mito e del discorso scientifico (lógos orthós)”[7]. E, per quanto “infidi i ragionamenti sostenuti da similitudini”, rimane “nerbo della speculazione ogni forma di espressione in cui l’inafferrabile concetto astratto si realizza nella concretezza dell’imagine e del simbolo”;…”non c’è soluzione di continuità, in Platone, tra la fase razionale e quella fantastica”. Anzi, “per sfuggire al linguaggio della mitologia si resta schiavi della mitologia del linguaggio” entro cui si presume di “chiudere il ciclo della speculazione nella illusoria chiarezza delle idee astratte”[8].

 

Stefanini non fu pienamente capito dalla sua generazione per esser stato, come diceva lui stesso, “scandalo a destra e a sinistra”[9]  e mal interpretato anche da non pochi suoi stessi ammiratori[10].

In lui si potevano rilevare delle caratteristiche – spiccato senso estetico, profonda serenità d’animo e notevole indipendenza di giudizio – abbastanza diffuse nella gente della sua città, la  “Trivigi, che di chiare fontane tutta ride”, come canta Fazio degli Uberti. Qualcuno  vuol collegare tali caratteristiche alle proprietà del sito acquatico di quella città[11], con sorgive, fontane e fiumi da ogni lato (Comisso nei suoi appunti così se ne rende interprete: “queste acque, che mutano non solo la loro forza, ma il loro colore, da limpido a torbido, hanno anche la virtú di ispirare un’imquietudine fantastica, come nei sogni, che spiega il formarsi in questa città di tanti artisti”[12]). Indubbiamente, per eredità storica, la gente trevigiana possiede abitudini e tradizioni di libertà comunali tra le piú evolute. Di questa città sono stati rilevati, in particolare,  l’arguto scetticismo verso gli eccessi ideologici (forse essendo “Treviso sempre per sua natura punto d’incontro e mercato fluviale”[13]) e,  come per i veneti in genere, i “caratteri saldissimi psicofisici di lavoratori equilibrati e di tenace serenità”[14].  Pare, insomma, che il sentimento profondo che Stefanini aveva della tradizione piú antica, anche religiosa, e la sua geniale duttilità verso il nuovo, siano in parte tratti tipici della sua Treviso, nel cuore della quale egli nacque e a cui appartenne fino a trentacinque anni partecipando intensamente alla vita culturale. Non è difficile riscontrare in lui la capacità spregiudicata di mantenersi libero da soggezione nei confronti di imperanti scuole di pensiero[15], un raro equilibrio nella sua “prospettiva di pensiero armonica e compiuta”[16] e una personale serena integrazione tra ragione e fede, che  A.Banfi riconosceva confermata in lui “non con l’appello ad un magistero tradizionale, o alla validità storica di un Istituto, ma nel libero esercizio del pensiero”[17].

Tutta sua propria è, comunque, la maturazione profonda del ricercatore, rigoroso e sensibile al dovere dell’intellettuale che sappia offrire segnali sicuri di orientamento al suo tempo; soprattutto affidandosi, nel mezzo di accese diatribe dottrinali, alla forza della pura razionalità e ad un’ispirazione superiore che l’aiuti a non irretirsi in sterile problematicità.

 

In questa raccolta di saggi, Stefanini risulta un referente privilegiato nello studio della funzione dell’immagine. Per almeno tre peculiarità. Fu ineguagliabile interprete di Platone, l’artefice della svolta epistemica intorno alla doxa, strettamente connessa alla dialettica dell’immagine. Visse come pochi la crisi del suo tempo, mai storicamente così acuta, della lacerazione del rapporto tra ruolo dell’intellettuale e sentimento delle masse, tra rigore della razionalità e urgenza della concretezza. Infine, consacrò la sua opera speculativa nel tentativo di integrare, in visione razionale, la concezione biblica dell’uomo come imago Dei (v. saggi di Alici e Sciuto).

Circostanze queste che possono suggerirci un rilievo generale e qualche accostamento inattuale.

Riproponendo lo statuto platonico dell’immagine, Stefanini si riconduce necessariamente alla definizione dello stesso Platone sul tempo quale “immagine mossa dell’eternità”. Niente altro se non immagini mosse dell’eterno sono le nostre temporanee acquisizioni di verità. In altre parole, la inconclusività dei dialoghi platonici non è espediente didattico ma riflette, dall’interno, il continuo movimento di chi, tra incerte e provvisorie asserzioni strutturalmente legate alla mediazione dell’immagine, è alla ricerca della verità (v. saggio di Salmeri). Questa, dall’orizzonte del non mutevole, genera l’inquietudine radicale nel cuore dell’uomo (v. saggio di Rigobello) e costituisce il senso stesso della ricerca (v. saggio di Chiereghin). Stefanini, tuttavia, rapporta Platone all’esperienza cristiana di Agostino; pertanto la dialetticità dell’immagine non è riferita soltanto alle cose o al linguaggio, ma investe essenzialmente l’essere dell’uomo (la “metafora viva” richiamata in piú saggi). Così il problema dell’immagine si fa problema dell’uomo[18]: non un’astratta ricerca intorno al senso dell’essere, coestensivo al senso dell’immagine, ma intorno all’uomo, al centro della ricerca stessa. Poiché, inoltre, Stefanini non si lascia andare al gioco delle parole né si nasconde dietro a sofismi[19] – nemmeno sul tema dell’immagine che pur si presterebbe all’indefinitezza e alle abilità di maniera – conseguentemente all’intuizione del Platone in perenne movimento speculativo, egli dichiara di privilegiare, sul piano logico, il procedimento dell’eduzione rispetto a quello della deduzione e dell’induzione.

In un accostamento agli intellettuali del suo tempo, Stefanini potrebbe essere contrapposto, in controluce, ad un altro maestro italiano col quale non sembra aver in comune che l’anno di nascita: A. Gramsci. I due intellettuali, militanti di fede opposta, nel contesto della loro specifica solitudine, possono svelarci attraverso l’analisi del linguaggio, quali condizionamenti culturali li inchiodarono su posizioni antitetiche che, indipendentemente dalla loro scontata rettitudine intellettuale, paiono contrassegnarli con un’incompatibilità ideologica abbastanza datata. A distanza di tempo, un loro confronto sul piano del linguaggio torna opportuno se non necessario. Parte essenziale delle analisi gramsciane sono certamente le implicazioni del ruolo storico dell’intellettuale con i vari poteri che si determinano nella società; per Stefanini è piuttosto l’analisi della problematicità intrinseca alla struttura immaginistica della conoscenza, quella di cui ogni autentico intellettuale deve sapientemente premunirsi. E poiché gli elementi utopici di ogni progetto politico interessano in prima istanza la dialettica dell’immagine, la lezione stefaniniana è tutt’altro che irrilevante al rivoluzionario che, piú di tutti, corre il rischio di votare la sua vita ai piedi di un’immagine indebitamente assolutizzata[20]. La condizione da rispettare in un simile confronto si riconduce alle modalità del dialogo che, osserva G.Cottier, deve innanzitutto rimuovere “l’immagine” che una delle parti s’è fatta dell’altra. I puri “accordi pratici…resteranno precari e fragili finchè, parallelamente, non ci si sforzerà di dare loro delle basi teoriche” ricercando, ognuna delle parti, “nella tradizione religiosa o filosofica che gli è propria, delle motivazioni valide del suo impegno pratico” e stabilendo, senza occultare le divergenze, “punti di contatto e di convergenza”[21].

Un altro accostamento interessante sarebbe nei confronti di M. Heidegger e di E. Stein. Riguardo a quegli autori rileviamo in Stefanini, rispettivamente, netta differenza e notevole affinità, circa l’impiego del dato biblico sull’uomo imago Dei. Heidegger ignora quel dato in quanto ignora l’eredità ebraica[22] nel considerare la natura del pensiero occidentale. Stefanini, invece, assume pienamente quell’eredità all’interno dell’agostinismo. Ne risultano due diverse concezioni dell’uomo e due diversi esiti del soggettivismo moderno: quel dato biblico comporta infatti una diversa comprensione dell’umana inquietudine tematizzata in tanta filosofia moderna. È invece sorprendente come certi aspetti della tradizione mistica ebraica, denominata Kabbalah, trovino riscontro in tanti passi stefaniniani[23]. La Stein, un’autentica interprete della tradizione ebraica, si rivela, al riguardo, affine a Stefanini. Ella considera ogni anima con impresso uno speciale sigillo il cui nome sta, di fronte a Dio, unico e inconfondibile, non traducibile nel discorso. Questo “nomina cose e persone mediante segni comunemente comprensibili che, per lo piú, lasciano fuori la specifica intimità di ciascuno, quella che sentiamo in noi e nei confronti degli altri, e che è destinata a restare avvolta nell’oscurità e piena di mistero, del tutto inesprimibile (“Unaussprechliches”) nel linguaggio umano”. Soprattutto “la singolare immagine di Dio che l’uomo, in un  modo del tutto personale (“ganz persönliche Weise”) deve riprodurre”[24].  Stefanini è in pieno accordo con tale tradizione, soprattutto come filosofo dell’unità della persona. La persona non divisa ma dinamicamente integrata in tutte le sue espressioni che, senza sconfinamenti mistici di tipo nirvanico, realizza gradualmente quell’immagine dell’Altro da sè, di cui è irripetibile portatrice[25].

Proprio in questo senso, non è secondario l’interesse di Stefanini per la bellezza quale forza unificante che, nell’arte, custodisce il segreto piú risolutivo della conoscenza (v. saggio di Piselli). Qui davvero il problema dell’immagine risulta decisivo.

 

A questo punto, se per Stefanini dobbiamo rammaricarci, con Berti, che “nessuno dei suoi discepoli l’abbia ripreso” (p._218), ci auguriamo almeno che questo centenario avvii la riscoperta e la rielaborazione del suo insegnamento. Ad impedirlo potrebbero essere: o il condizionamento pesante dei pregiudizi o un certo distacco dalla sua forma letteraria o, soprattutto, l’intrinseca proposta del suo insegnamento. Tre tipi di difficoltà, però, tutt’altro che insormontabili.

I pregiudizi, nel caso di Stefanini, sembrano riconducibili alla mania delle etichettature (spiritualismo, esigenzialismo, personalismo ed altre) cui lo stesso Stefanini offre delucidazioni piú che sufficienti per un superamento.

Quanto alla forma letteraria, essa rivela uno stile improntato alle esigenze dell’uditorio o del lettore, influenzato dal comune sentire su certi problemi e mai asettico. Esso è diverso se semplicemente espositivo scolastico o invece persuasivo, se persuasivo confutatorio o invece lirico descrittivo, se assertorio o problematico; ma sempre è rigorosamente innervato e sotteso da procedimento logico. Ed è questo che conta. Per Stefanini il rigore logico è la posta in gioco della sua opera. La variabilità e la duttilità del suo stile ci suggeriscono piuttosto la chiave interpretativa per individuarne i contenuti. Certamente oggi preferiamo non ricorrere scopertamente alla mozione degli affetti, né ci appelliamo agli ideali piú di tanto; liberi e  smaliziati, come crediamo di essere, sulle ambiguità dell’emozione, non ci concediamo alla foga forense, preferiamo il disincanto all’entusiasmo, il distacco al coinvolgimento. Ma sarebbe ingiustificato giudicare i testi stefaniniani sulla base dei nostri gusti stilistici. Come sempre avviene, nel mutare delle  forme letterarie si guadagna e si perde.  Pertanto, la strada migliore per superare questa difficoltà è di analizzare attentamente, quasi vivisezionandole, le brevi folgoranti sintesi che, nell’architettura dei vari piani del discorso, si propongono come espressioni concettuali, ellenicamente pressoché perfette e inalterabili.

Infine, l’arditezza della proposta filosofica stefaniniana del tentativo di riprendere dalle fondamenta, in campo filosofico, l’antica tradizione platonica, di fonderla con l’eredità giudaico-cristiana attraverso l’agostinismo, e di riproporne la validità ai contemporanei segnati dalle rivoluzioni speculative moderne e dalle piú recenti esperienze del pensare[26], è impresa che rivela la coscienza di una robusta intuizione filosofica, di una missione intellettuale proiettata al di là delle opposizioni di scuola e delle suggestioni di effimere novità. Stefanini si mosse con raro equilibrio tra antico e nuovo, come i pensatori lungimiranti nelle epoche di trapasso. Dell’antico conservò la scepsi platonica e il senso costruttivo della patristica. Mirando al cuore del soggettivismo moderno[27], trasfuse in termini di persona la ricerca ontologica. Se, ancorato a suo modo alla metafisica del trascendente, oggi probabilmente non si schiererebbe con il cosiddetto pensiero debole, è significativa la circostanza di essere stato spesso accomunato al filone dello spiritualismo italiano, all’epoca criticato come una specie di filosofia debole[28]. Ma è soprattutto nell’intuizione che intorno al problema dell’immagine si annidino le principali chiusure e aperture del cammino speculativo, che si svolge sostanzialmente tutta l’opera stefaniniana. Lì si rivela al massimo grado, l’ansia tipicamente platonica, di trovare l’ambito dell’unificazione di ogni tipo di esperienza, con tutti i suoi risvolti, in vista di una vera libertà dello spirito[29]. Coglie pertanto nel segno M.Gentile quando scrive di Stefanini: “Ha amato, con una pienezza rara, la vita in tutte le sue espressioni”[30].

 

Gli autori di questo volume contribuiscono in vario modo allo studio del tema stefaniniano dell’immagine, come appare nella suddivisione del volume. In una articolazione storiografica, Santinello ci offre uno sguardo d’insieme che, attraverso numerosi spunti, ci consente una lettura prospettica della filosofia stefaniniana, come quella di un “precursore” (p. 25). Nistri, conducendo un’analisi teoretica dell’opera da Stefanini specificamente dedicata all’immaginismo, ne evidenzia la potenzialità strutturale di una visione a tutto campo: “ambito invalicabile di tutti i pensieri, azioni, comportamenti ed aspirazioni dell’uomo”(p. 40).

Nel confronto diretto con i classici, Zeppi trae motivo dall’intricata questione eraclitea per segnalare come il “radicamento concettuale” (p._56) delle precedenti posizioni sulla concezione dell’immagine, consente a Stefanini di compiere “un’operazione quanto mai felice”, suscettibile di “sviluppi ulteriori” (p. 56). Martano indaga, nello Stefanini, il disegno personalistico di fondo rapportandolo ad una valutazione esegetica del tema immaginistico in Platone, come nella sua sede naturale. Il saggio di Salmeri arriva a concludere che “anche oggi studiando Platone è necessario incominciare da Stefanini”(p. 96): l’interpretazione del filosofo trevigiano intorno alla scepsi platonica quale intrinseca connotazione di un reale dissidio (il problema immaginistico lo ripropone) è difficilmente contestabile. Con Sciuto si esplicita la matrice agostiniana dell’immaginismo che, per il suo nesso essenziale con la struttura dell’uomo, dà il senso dello smarrimento contemporaneo a causa della dimenticanza dell’originaria relazione divina. Sullo stesso percorso, Alici considera il cammino della razionalità di Bonaventura, individuandone i significativi motivi di approfondimento del problema immaginistico. Chiereghin affronta il nodo piú intricato della questione riportandosi a Kant attraverso Stefanini e facendo emergere, seppur a titolo diverso, l’attendibilità metafisica di entrambi.

L’attualità della posizione stefaniniana in campo ermeneutico è considerata da Rigobello nell’ambito di una riflessione intorno alla persona “luogo dell’immagine” (p. 142); egli vi rileva “qualcosa di kantiano nei limiti in cui Kant interpreta il senso piú puro del platonismo” (p. 145), con implicazioni attinenti il piano morale, religioso e, soprattutto in riferimento a Ricoeur, all’ermeneutica.

In campo estetico, ove Stefanini risulta di sorprendente attualità, Piselli riscontra come la struttura dell’immagine, intesa “come prodotto” (p. 156) e quindi come attività e non passività del soggetto umano, nell’incontro col bello artistico costituisce il senso di una radicalità problematica, affidata all’esperienza estetica, tale da riproporre all’uomo il tema specifico dell’assoluto. Sempre nell’ambito dell’esperienza estetica, Campanelli offre un quadro di significativi riscontri testuali in cui si precisa l’immagine nel suo particolare legame con la parola.

Con estensione alla prospettiva sociale, Pieretti considera, di riflesso e implicitamente, l’attualità della concezione dell’uomo contrassegnato dalla dimensione comunitaria del suo essere originario; e Goisis, in una ricostruzione dell’interpretazione stefaniniana del pensiero politico di Platone, si proietta nell’ambito del personalismo europeo, tenendo presenti interpretazioni piú riduttive recentemente formulate.

Il volume si conclude con la testimonianza di Berti che, nel racconto in prima persona di un’esperienza vissuta, ci mette in condizioni di percepire il significato dell’insegnamento stefaniniano, rispondente all’esempio di una sapiente fusione di dottrina e umanità.

 

Alcuni rilievi tecnici sarà utile tener presenti. La grafia di “imagine” e “imaginismo”, con una sola “m”, nell’intenzione degli autori vuol richiamare piú direttamente il testo stefaniniano basato sull’etimo latino di “imago”. Inoltre, la diversa procedura negli apparati critici e alcune sovrapposizioni di argomenti risultano l’inevitabile pedaggio, ma anche l’utile messa a punto incrociata, di un’opera a piú mani.

I ringraziamenti per la realizzazione di questo volume vanno: innanzitutto agli autori che hanno aderito con singolare competenza; ai figli di Stefanini, la signora Lucia che assieme al marito Antonio Balasso custodisce con cura la biblioteca paterna facilitandone l’accesso agli studiosi, e il dott. Paolo per le utili indicazioni forniteci con suo figlio Luigi; ai soci dell’Associazione Filosofica Trevigiana che a vario titolo hanno concorso alla preparazione di questo volume; infine, a tutti coloro che si interessano per una riattualizzazione della prospettiva stefaniniana. Cogliendone il sapiente magistero, la cultura filosofica si arricchirà di vigore speculativo connesso ad autenticità di vita[31].

 

[1] (L.STEFANINI, Personalismo filosofico, Brescia 1962, pp.60-61)

[2] Sulla natura di immagine della parola cfr. A.M.Moschetti, in AA.VV., Scritti in onore di Luigi Stefanini, Padova 1960. In particolare, a p.156: “L’imaginismo diviene, per lui, “.

[3] A.M.Moschetti, definendo Stefanini una “vita che si cerca nella ricerca della verità”, denota come suo “tema speculativo dominante” la ricerca intorno all’immagine (A.M.Moschetti, op.cit., pp.141-142).

4 “Tu, Abbagnano, non puoi bandire i miti: tu stesso usi immagini  nel tuo parlare” osservava Stefanini, in un dibattito (v. “Archivio di Filosofia”, 1942, p.78).

[5] Il problema è centrale anche in Wittgenstein. Nota I.VALENT: “Il punto chiave del metodo wittgesteiniano consiste…nel far emergere e valorizzare lo scarto tra l’uso informativo e l’uso espressivo del linguaggio. Tra l’immagine che s’accompagna al segno, o che il segno stesso evoca, e il modo specifico dell’applicazione dell’immagine. Anzi, non è fuori luogo dire  che la fatica del filosofo è in gran parte volta a l chiarimento e al ridimensionamento della potenza immaginativa insita nel linguaggio”. E, riportando Wittgenstein: “Se vogliamo comprendere il senso di quello che diciamo, dobbiamo esplorare l’immagine” (Invito al pensiero di Wittgenstein, Milano 1989, pp.194s). Ma significativo è pure l’accostamente fatto da D.Bell tra Wittgenstein e Kant in merito al problema dell’intuizione estetica e dello schematismo trascendentale (cfr.The Art of Judgement, in “Mind” n.382 (1987), pp.221-244).

[6] Cfr. L.STEFANINI, Platone, Padova 1932, vol.I, pp.XLVII-XLIX.

[7] ID., op. cit., p.L.

[8] ID., op. cit., p.LIV.

[9] G.A.ROGGERONE, L.Stefanini e l’immaginismo cosmico, in “Sguardi sulla filosofia contemporanea”, Torino, Gennaio 1957, p.3.

[10] E’ significativo, ad esempio, che C.Carbonara (cfr. AA.VV.,Scritti …op.cit. ) continui a considerare Stefanini sul piano di quell’esigenzialismo che ripetutamente ed energicamente egli aveva rifiutato in quanto il suo personalismo se non rientrava propriamente nella concezione classica dell’ontologia e si differenziava dalla dominante cultura idealistica italiana, non poteva identificarsi nè con lo spiritualismo francese nè, tanto meno, con certo irrazionalismo esistenzialistico per quanto teistico.

[11] Dante si limita a ricordarlo, senza farne il nome, citandone i corsi d’acqua: “dove Sile a Cagnan s’accompagna”, Paradiso, Canto IX, v.49.

[12] G.COMISSO, in AA.VV., Treviso nostra, Treviso 1964,p.XXX.

[13] T.TESSARI, in AA.VV., Treviso Nostra, Treviso 1964, p.25.

[14] T.TESSARI, op.cit., p.13.

[15] Si può estendere a tutte le scuole filosofiche del suo tempo il rilievo di Chaix-Ruy sul rapporto di Stefanini con la filosofia francese: “Si può parlare di incontri non di influenza della filosofia francese” (J.CHAIX-RUY, L.Stefanini et la penseé franÇaise contemporaine, in AA.VV., Scritti…op. cit., p.66).

[16] G.A.ROGGERONE, ibid.

[17] A.BANFI, Testimonianze,in “Rivista di Estetica”, 1956, n.2, p.166.

[18] Scrive E. Paci: “Chi volesse studiare l’originalità della filosofia di Stefanini dovrebbe assolutamente approfondire il rapporto, in tutti i suoi vari aspetti, tra immagine e persona” (in AA.VV., Scritti…ecc.,op. cit.p.33)

[19] Stefanini rifiutava “le profondità sofistiche di Heidegger” (Personalismo filosofico, Brescia 1962, p.50)

[20] I due pensatori, per il comune legame con l’idealismo italiano, costituiscono un terreno propizio per impostare schemi ermeneutici trasversali rispetto ai tre classici modelli euristici della cultura italiana, laico cattolico e marxista, per nulla scomparsi, anche se in trasformazione o dispersi in rivoli. Ad esempio, su: la concezione della storia attuantesi come crescita progressiva della coscienza, l’immagine dell’uomo creatore del proprio destino (Per Stefanini “nulla esiste per l’uomo senz’essere da lui ricreato” (v. La pedagogia dell’idealismo giudicata da un cattolico, Torino 1927, p.39), la dimensione estetica di un vero umanesimo, il ruolo dell’intellettuale in rapporto al popolo, il modello educativo (certi passi del teorico del “rovesciamento della prassi” richiamano alla lettera le tesi di Stefanini sulla centralità dell’educando e sulla necessaria reciprocità tra educatore ed educando), il concetto di linguaggio, cui anche Gramsci ritiene “impossibile” togliere “i suoi significati metaforici” (Il Materialismo storico e la filosofia di B.Croce, Torino 19556, p.148), la figura – significativa per entrambi – del Gioberti, la rispettiva immagine sulla funzione storica della chiesa, il senso della religione nella prospettiva di una autentica liberazione dell’uomo da ogni alienazione (scrive Gramsci, ad esempio: “[il partito] prende il posto, nelle coscienze, della divinità”, in Note sul Machiavelli…TORINO 1949, p.8) e della stessa filosofia, “terreno neutrale – per Stefanini – in cui possono convivere l’ateo e il credente” (Il problema religioso in Platone e S. Bonaventura, Torino 1926, p.26); come pure su altri nodi concettuali che rendono legittimo quel “non devi pensare che io voglia offendere le tue opinioni religiose e poi penso che tu sei d’accordo con me piú di quanto non pare” di Gramsci (Lettere dal carcere, Torino 1965, p.443). A tensioni ideologiche allentate, solo l’assuefazione ai luoghi comuni potrebbe dissuadere dalla necessità di un confronto, nel quadro delle nuove istanze culturali cui siamo sollecitati.

[21]  L’interpretazione dei valori morali. Punti di convergenza, in AA.VV., Società e valori etici. Cristiani e marxisti a confronto, Roma 1987, pp.181 e 188.

[22] Se è vero quanto è stato affermato da L.Pareyson sull’anticristianesimo di Heidegger (cfr. Heidegger: la libertà e il nulla,Napoli 1990, pp.14-27) un confronto tra i due pensatori andrebbe posto in termini ancor piú radicali ossia sull’antiebraismo di Heidegger che esclude dal suo orizzonte teoretico ogni elemento di ebraismo giunto, tramite la patristica, all’occidente. Tuttavia, diverso sarebbe il confronto intorno al pensiero poetante teorizzato da Heidegger. Stefanini ebbe al riguardo un’attenzione persino precorritrice di studi recenti (cfr. Esistenzialismo ateo ed esistenzialismo teistico, Padova 1952, p.343) soprattutto nel contesto della filosofia dell’estetica.

[23] Se scorriamo alcune tematiche fondamentali di tale tradizione troviamo, come in Stefanini, una “interpretazione del misticismo in termini di operoso attivismo spirituale” (v.saggio di Alici), la concezione del rapporto dell’uomo con Dio come progressivo avvicinamento a Lui senza mai compromettere l’individualità della persona. E si può aggiungere che proprio la tematica stefaniniana dell’immagine suggerisce l’impossibilità di un’assimilazione dell’uomo all’assoluto divino. L’uomo infatti riproduce, a qualunque grado della sua relazione con Dio, la dialettica tra due assoluti distinti come dialettica dell’immagine che per sua natura permane necessariamente entro il limite invalicabile del suo essere sempre immagine.

[24] Cfr. E.STEIN, Am Kreuz vermält. Meditationen, Zurigo 1984, pp.61s. Nei confronti della Stein e della sua interpretazione del messaggio biblico, l’accostamento con Stefanini, pur nei rispettivi percorsi ontologici,  può rafforzare e precisare i termini del concetto di persona in quanto portatrice di una specifica assolutezza (un “universale concreto”). Si direbbe che Stefanini è accostabile alla Stein persino nel modo in cui si è dedicato alla sua impresa di pensiero: quello che nella Kabbalah è chiamato avoda, un servizio di Dio in piena adesione di pensiero e intenzione; ossia il modo di costruire e di “far vedere l’unità perfetta, intrinseca, dell’elemento carnale, materiale, visibile, esteriore, e dell’elemento spirituale, invisibile, interiore” (A.SAFRAN, Saggezza della Kabbalah, Milano 1990, p.147).

[25] Le critiche di Stefanini a Dilthey, Husserl, Heidegger e altri contemporanei riguardano in particolar modo la dissoluzione dell’unità dell’uomo che tali filosofie non salvaguardano sufficientemente.

[26] La proposta filosofica di Stefanini non è pura riproposizione del pensiero platonico-agostiniano: attraversa il pensiero idealistico e si fa carico del suo essenziale apporto del momento storico, senza tuttavia disperdere nel panlogismo il contenuto della rivelazione dell’immagine di Dio incarnatasi in un uomo e riproducentesi nell’assoluto di ciascuna persona. E’ la dialettica dell’immagine a fornirne lo strumento interpretativo, con la sua funzione dirompente rispetto alla struttura autoreferentesi del concetto, nel necessario trascendimento di questo.

[27] Di piú non si vede come potesse spingersi allorchè egli afferma essere: “la strada che la filosofia deve battere per prima, quella dell’ ” (v. Personalismo op.cit. p.20)

[28] Così L.MALUSA nella sua relazione su “Pensiero italiano tra filosofia e religione nel Novecento in Italia”, il 14 febbraio 1991 a Treviso.

[29] Nell’imponente giungla “imaginifica” dell’attuale società produttrice di immagini, l’opera di Stefanini presuppone una prima liberazione: quella dalle immagini, mediante un decantamento psichico. Propone poi, come seconda liberazione, che, nella fatica della ragione e alla luce dell’intelligenza, si attingano le ultime verità annunciate dal paradigma immaginistico.

[30] M.GENTILE, Luigi Stefanini, in “Studia Patavina”, 1956, n.3, pp.372-373.

[31] “Mio padre era le cose che diceva”. Testimonianza del figlio Paolo Stefanini in un colloquio col sottoscritto.

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