Rapporto scienza fede in Luigi Stefanini di Renato Pagotto

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RAPPORTO “SCIENZA e FEDE”  in LUIGI STEFANINI

(Fondazione Luigi Stefanini – 13 febbraio 2014 – R. Pagotto)

 

Tra i molti modi in cui la ragione è stata considerata, da Platone a Pascal, da Aristotele ad Hegel, da Agostino ai medioevali, a Kant e a tutti i moderni, quello di Stefanini si inserisce con una originale orditura metafisica. Offre i vantaggi di non disperdere le problematiche apparse nel corso della storia del pensiero e di mantenere l’impronta moderna nella messa a fuoco del soggetto conoscente.

In particolare, gli ambiti della scienza e della fede risultano ben connotati e distinti nel suo pensiero. La fedeltà al rigore della ragione va di pari passo con la precisione di linguaggio onde non confondere i due ambiti. Ha senso, dice, parlare della fede, ma non per fede, nell’ambito della scienza; non ha senso supportare contenuti di fede in ambito scientifico. Come dire: c’è un uso della ragione, che chiameremo ragionevolezza, su temi extrascientifici ed un suo uso propriamente scientifico nell’ambito della logica formale e dell’osservazione empirica.

E la filosofia? Può gestire la necessità di quella distinzione? Esiste un ponte linguistico che consenta di tenere distinti e autonomi i due ambiti, senza cadere in una forma di schizofrenia, che li renderebbe intrattabili tra loro? La risposta di Stefanini è chiara e la espone in La mia prospettiva filosofica. Il terreno di partenza per considerare i due ambiti, senza confonderli, ma anche senza renderli impermeabili tra loro, non può che essere psicologico. È così che la filosofia si assume il compito di indagare intorno ai problemi esistenziali dell’uomo. Questo inizio rientra, quindi, come opzione per l’impostazione moderna del cammino filosofico, che preferisce il soggetto uomo, con la sua “personale esperienza” di vita, e della vita interiore in tutta la sua profondità, intessuta di sentimento pensiero e volontà, piuttosto che per l’oggetto “uomo generico e universale”, teorizzabile con categorie metafisiche tradizionali. Si tratta di una opzione antropologica dalle conseguenze decisive anche nell’impostazione del rapporto tra scienza e fede.

Il primo atto conoscitivo in ogni indagine, che riguarda il mio essere al mondo, è fondamentalmente la domanda: chi sono? Non ‘chi sono per gli altri?’: questa domanda tratterebbe me stesso come un oggetto tra i molti.  Oggetto di un’esperienza a me esterna, e pertanto estranea e periferica rispetto alla domanda. Il nome, con cui gli altri mi nominano, appartiene a questa esperienza. Invece la domanda “chi sono ?” riguarda l’essere che sperimento come evidenza primordiale e insostituibile: l’evidenza del mio essere al mondo, la mia esistenza. Esistenza non alla maniera cartesiana di un soggetto pensante ma di un soggetto senziente, volente e pensante. Quindi di un soggetto legato alla corporeità, dotato di libere decisioni e di riflessione su se stesso. Un tutt’uno indivisibile e unico. Una realtà, la più prossima a me stesso, che raggiunta una sufficiente consapevolezza della propria identità psicologica rileva, con stupore, il fatto di esistere: costatazione che precede e diventa prioritaria per importanza rispetto a tutti i fatti dell’esperienza esterna. Tale esperienza originaria implica l’immediata domanda sulla genesi del mio essere al mondo. Non sul piano scientifico della modalità biologica ma sulla base dell’intuizione che l’esistere non dipende da me. Sul piano dell’essere va cercata una spiegazione plausibile al di là dell’evidenza fenomenica dell’esistere. Tradotta in termini tradizionali, la domanda chiede: come può un essere contingente e finito trovare in se stesso la ragione ultima del proprio esserci al mondo?  In Stefanini la domanda non è in termini generici e astratti sull’essere: la risposta sarebbe anch’essa generica e astratta, come nella scolastica tradizionale. È invece formulata nella modalità della soggettività moderna, inaugurata da Cartesio, rimodellata in categorie da Kant, definita in termini coscienziali da Husserl, ma con uno sguardo olistico che tiene insieme gli apporti cognitivi e gnoseologici dei precedenti autori e la percezione esistenziale che il singolo ha della vita, innanzitutto di fronte a se stesso come esistente ed esistente limitato. In una simile lettura di sé, come esistente limitato e necessitato  a cercare fuori di sé la risposta alla domanda sulla causa del proprio esistere, si accredita lo sguardo metafisico (oltre la realtà fisica) e si apre lo spazio per il possibile ascolto del dato di fede, che fa riferimento ad un atto creativo dell’essere dal nulla.

Dall’intuizione psicologica della necessaria domanda sull’origine del proprio esserci siamo passati alla riflessione, cioè al ragionamento, intorno a due concetti opposti e irriducibili: “essere e nulla”. La distanza tra i due concetti è infinita. Ma di un infinito qualitativo, non quantitativo, proprio della scienza fisico-matematica.

Al dilemma essere-non essere la scienza non presta attenzione, essendole estraneo (nulla si crea nulla si distrugge, è il suo presupposto) e quindi senza senso. Così è per l’uomo di scienza, ma non per la scienza dell’uomo, o antropologia, cui ambisce ogni filosofia.

In essa, l’esperienza del mio esistere, dell’ ‘io sono’, ha come contropartita l’esperienza della sospensione sul nulla. Esperienza dalla doppia faccia: stupefacente per la sorpresa dell’esistere e tragica per l’impossibilità di trovarne un senso. Di specifico, la domanda “a chi attribuire la mia esistenza?” comporta il superamento dell’infinita distanza concettuale tra esistente e nulla. È dunque in gioco il concetto di infinito.

Il concetto di infinito è stato da sempre travaglio del pensiero umano. Esso ha, nella storia, varie formulazioni. Presso i greci non era visto positivamente per la ragione della mancanza di delimitazione e di chiarezza. Significava, in una parola, l’indeterminatezza, l’indefinito, ciò che non ha possibilità d’essere concettualmente delimitato. Pertanto, inesprimibile, non razionalizzabile.

Quando quel concetto fu invece assunto positivamente? Con Gioberti, Stefanini concorda nel vedere il passaggio al senso positivo di infinito con l’introduzione del concetto di creazione (Agostino). Ma qui s’affaccia un contenuto di fede, di fronte al quale la ragione ha due possibilità: ignorarlo o prenderlo in considerazione, non in nome proprio ma a titolo di attenzione all’altro da sé, cui prestare ascolto.

Sappiamo che per la scienza il concetto di infinito ha solo significato simbolico. Valido per le operazioni astratte di tipo matematico, attinenti l’aspetto quantitativo della misurazione, anche applicate alla fisica, pur senza possibilità di verifica empirica. Ne è un esempio il cosiddetto calcolo infinitesimale. Comunque, trattandosi di numeri, tali operazioni conservano un concetto di unità che è quello di unità numerica, tale per cui ad un numero se ne aggiunge un altro, all’infinito, senza mai determinarne la quantità, che rimane indefinita. Era in questo senso che per gli antichi greci era segno di imperfezione. Hegel lo chiamerà il cattivo infinito.

Ora veniamo a sapere dagli studi sul linguaggio, di Chomsky in particolare, che sul versante scientifico dell’evoluzionismo, il termine ‘infinito’ appare come il meno inadeguato per descrivere il fenomeno dell’improvvisa comparsa del linguaggio umano. Scrive N. Chomsky: «Darwin osservò che gli animali inferiori differiscono dagli esseri umani per […] un potere quasi infinito, di associare e comporre i più svariati suoni con le più svariate idee. L’espressione quasi infinito deve essere intesa come, semplicemente, infinito, e adesso sappiamo che il modo di fare tali associazioni è nell’uomo radicalmente diverso da qualsiasi altra specie […]. Uno dei più insigni studiosi dell’evoluzione, Ian Tattersal, in una sua recente rassegna sulle origini dell’uomo, conclude dicendo: “L’acquisizione della sensibilità unicamente umana è stata improvvisa e recente nei tempi dell’evoluzione e la sua espressione è stata […] il più notevole tratto dell’uomo moderno, cioè il linguaggio”. Sappiamo dalle scienze formali (matematica, logica e teoria del calcolo) “come un sistema finito – il cervello umano o un calcolatore programmabile – possa generare un numero infinito di espressioni […]. La lingua che ogni essere umano padroneggia è un oggetto finito, ma di portata infinita. È una proprietà interna alla persona, un sistema di elaborazione e calcolo di un cervello finito che rende possibile esprimere un repertorio infinito di espressioni strutturate» («Corriere della sera», 8 gennaio 2014, p. 32).

Da queste note sembra che il concetto di infinito perda la connotazione di quantità, per assumere quella di qualità. Ossia del passaggio dalla natura della pura animalità a quella dell’umanità. Ossia come passaggio di tipo qualitativo tra specie qualitativamente diverse. Tutto riferito all’infinita creatività, reale e non simbolica, connessa al linguaggio. La parola quale sede di infinito.

Occorre precisare però che, se quest’uso del termine infinito mantiene ancora significato scientifico, ossia di quantità non verificabile in atto, ma valida come rilevamento d’una tendenza, dovremo assegnargli la connotazione di infinito potenziale.

Nel caso della fede il passaggio dal finito all’infinito richiede, invece, l’ammissione di un infinito attuale. Su quali basi? Non scientifiche, perché ogni discorso su un infinito attuale non rientra nella conoscenza scientifica. Nemmeno su basi filosofiche, se le intendiamo unicamente come processo dimostrativo, ove l’applicazione del concetto di necessità rimane relegato all’ambito logico, di tipo logico formale, o comunque, come conoscenza della natura entro i limiti dell’esperienza. Con Anselmo e Cartesio si può pensare all’idea di Dio come infinito, ma rimane infinito potenziale, non attuale, pura ipotesi mentale (da notare, tuttavia, che in Anselmo gioca un ruolo fondamentale il concetto di perfezione, che include anche il concetto qualitativo di esistenza). Se tale idea ci viene fornita dalla fede, pur rimanendo indimostrata, la sua presenza in ambito mentale abilita almeno l’intuizione della sua non escludibilità o, al più, della sua possibilità. Rientra in quello che Stefanini considera: “valori religiosi che si sottraggono alle nostre prese quando sieno trattati con i reagenti ordinari di un’esperienza naturalistica o di una mentalità logico-matematica, consumata nell’uso delle deduzioni e del calcolo, ma inetta a cogliere il significato delle intuizioni più luminose e rivelatrici” (met.art p. 10).

Osserviamo che nell’idea di infinito, nella sua connotazione qualitativa nel rapporto tra i concetti di essere e nulla, oppure di tempo ed eternità, ogni riferimento alla quantità è un controsenso. Lì il significato di unità non riguarda una realtà complessa, numerabile, bensì semplice. L’infinito è uno, senza successione di altre unità. Non ha spessore, non contiene che se stesso.

Si tratta di infinito anche attuale? La filosofia sul piano ontologico-metafisico può affermarlo come realtà di infinito attuale, non a conclusione di una dimostrazione logica, bensì all’interno, come avviene in Stefanini, dell’esperienza psicologica. Ossia della coscienza che il soggetto esistente, esistente limitato, ha della necessità di una risposta, ragionevolmente accettabile, sulla sua realtà proveniente dal nulla. La fede offre una risposta alla provenienza dal nulla con il concetto di creazione. La filosofia può accettare o meno tale indicazione, che né si impone né si oppone alla ragione. Ovviamente, in una nozione di ragione non ristretta al solo ambito sperimentale o logico formale.

L’idea di creazione evoca un atto causativo nell’essere da parte di una realtà che non rinvia ad altro e quindi infinita nel suo essere. Un infinito attuale, realmente esistente, un infinito creante, che ha in se stesso l’esistenza. Chiamerò analogica quell’idea, cui posso acconsentire,  a partire dalla coscienza della contingenza del mio essere. Non è quindi un vuoto riferimento simbolico, privo di riscontro reale, come in uso nelle operazioni matematiche sui numeri, anche irrazionali. Così Stefanini sulla natura  del simbolo matematico: “Nulla più inesatto che denominare ‘simbolica’ quella matematica logistica che si muove nel campo delle inferenze puramente analitiche: anzi essa prescinde affatto dalla possi­bilità di applicare all’intuizione cosmica le sue intuizioni logiche, valide e complete in sé e per sé: essa è l’ ‘antisimbolismo’ per eccellenza” (Im pp.81-83).

Mentre la scienza tratta di pure simbologie astratte, in sede filosofica la simbologia è aperta sul possibile reale, senza dimostrazione sperimentale, ma senza contraddizione concettuale.

Dunque, sentirsi creati fa parte dell’esperienza psicologica di chi non accetta il vuoto di risposte alla legittima domanda di senso sul fatto, del tutto concreto, della propria esistenza, finita e sospesa sul nulla. Ecco perché Stefanini mette all’inizio del suo filosofare, l’esperienza psicologica dell’io, soggetto che non può sottrarsi, senza rinnegarsi come realtà interrogante a 360 gradi su di sé, alla domanda sull’ “io sono”, sul “mi vedo esistente”. Può avvenire, per ‘neghittosità’ direbbe Stefanini[1], che ci si sottragga a cercare una ragionevole risposta, lasciando alla scienza tutto il campo delle domande umane, rifiutando le domande cui la fede può fornire indicazioni di risposta. In tal caso, si evita la portata tragica della domanda, che comporta ricerca infinita, e si tacita lo stupore abbagliante del mio esistere, proveniente non si sa da dove.

Ma ecco com’è ancora possibile procedere nell’analisi del rapporto scienza e fede seguendo Stefanini. Egli trae dagli scritti del Gioberti l’impostazione che interessa il concetto di ragione. La ragione perviene a dei dati psicologicamente incontestabili, nei due momenti di acquisizione di una verità: l’intuito e la riflessione. L’uno intuisce confusamente, l’altro acquisisce in modo chiaro e convincente. Stiamo parlando del meccanismo conoscitivo, gnoseologico, di cui abbiamo esperienza diretta, interna, introspettiva, innegabile.

Sottopongo alla riflessione l’intuito di infinito, presente confusamente al mio pensiero. Come si spiega?

Leggiamo alcune pagine stefaniniane: «La nozione d’infinito, abitualmente congiunta alla mente umana per la virtualità dell’intuito, si rende esplicita col ragionamento che connota l’infinito stesso coi caratteri dell’unità intelligente e volente, cioè della personalità. Sarebbe indeterminato l’infinito se si concepisse, alla maniera spinoziana, come mera sostanza; ma è determinato se si concepisce come causa, e tale determinazione non nuoce all’infinito se la causa si concepisce come creatrice. La constatazione degli esseri contingenti, tratti dal nulla col superamento dell’infinito intervallo che passa tra l’esistente e il nulla, ci dà l’idea dell’atto infinito e quindi dell’infinito determinato e personale[2]. Allo stesso risultato si giunge, considerando che, oltre il limite della nostra conoscenza del reale finito, si stende l’infinita possibilità delle cose, la divisibilità e molteplicità infinite della materia, dello spazio e del tempo, e via dicendo; ora, se tale infinita possibilità delle cose, pur realizzandosi in noi necessariamente come idea, non può mai realizzarsi di fatto nell’atto nostro finito, è anche necessario fondarla, arguendo un intelletto e una volontà infiniti che possano effettuarla. Infatti, pensare e fondare la possibilità infinita è tutt’uno[3].

La nostra disposizione all’infinito è dunque connessa con un’idea, che non informa la mentalità finita, se non in quanto è positivamente qualificata coi caratteri della trascendenza e della personalità attiva e creante. L’idea dell’infinito sostituisce validamente la nozione del perfetto dell’argomento anselmiano, il cui difetto sta nel concludere dall’ideale al reale, senza appoggio nel reale medesimo. “La prova più forte, anzi la sola vera prova dimostrativa dell’esistenza di Dio può esserci data dalla filosofia infinitesimale”[4]. Questo concetto giobertiano non va senza riscontro con la prova cartesiana dell’esistenza di Dio, ricavata dall’idea dell’essere infinito: idea che, non potendo sorgere dall’umana finitezza, deve originarsi dalla stessa causa infinita, realmente esistente.

La nozione dell’assoluto, che è il risultato di questa prova, importa la necessità dell’infinito attuale, ed esclude che l’infinità divina possa esser convertita nell’assoluta indeterminazione: ciò che già abbiamo considerato a proposito del personalismo giobertiano[5]. L’infinito intensivo – da distinguersi dall’infinito estensivo o quantitativo, che nasce con la creazione – si caratterizza da sé, non col sottomettersi a limiti, ma appunto coll’escludere da sé ogni limitazione e pienamente autopossedendosi. L’opposto del determinato non è l’infinito, ma l’indefinito. Con questo concetto il Gioberti conquista una prospettiva tanto elevata che gli consente di accentrare tutta la storia del panteismo, quale misconoscenza di quel principio e confusione dell’infinito coll’indeterminato. Di tal natura fu l’infinito dei greci, nel quale essi videro il principio dell’imperfezione, tanto che Platone di fronte all’ a\épeiron, come causa errante e fonte di ogni disordine, pose la perfezione ordinatrice di Dio come limite: peérav. Senza correggerne la significazione classica, i moderni trasferirono l’infinito-indefinito dei greci a rappresentare le condizioni dell’assoluto, con l’assurda conseguenza di dover immettere il limite nel seno stesso dell’assoluto, per esprimerne il processo di realizzazione. Assurgendo alla visione delle conseguenze morali e politiche del principio speculativo della filosofia moderna, il Gioberti attribuisce la corruzione delle coscienze e la rovina degli stati al vanificato concetto dell’assoluto, per cui «l’infinito attuale non è più presente in niun modo agli spiriti» e l’arbitrio della creatura finita non ha più freno nella trascendente maestà del divino personale[6].

L’errata conversione dell’infinito nell’indeterminato, è dovuta – a quanto spiega il Gioberti – all’applicazione della categoria quantitativa all’infinito intensivo o concentrativo o personale, che sopporta soltanto la categoria qualitativa; e gli antichi concepivano l’infinito come indeterminato, appunto perché ne facevano una quantità[7]. L’infinito quantitativo, infatti, o è contraddittorio perché, constando di parti finite, limitantisi reciprocamente, dovrebbe risultare una specie di infinito-finito; ovvero resta concepibile appena come un’aggiunzione di parti a parti, che cresce indefinitamente, senza mai raggiungere l’unità: resta concepibile cioè come infinito-indeterminato. Da questa rappresentazione quantitativa ci si libera a fatica nell’approssimarci alla nozione dell’infinito qualitativo, che sola compete all’assoluto; non senza considerare che, se questo è connotato quale unità, non soggiace perciò ad un computo numerico, perché è il numero derivato dall’unità creatrice, non l’unità creatrice limitata dal numero. “L’unità ci par finita, perché le contrapponiamo il numero. Ma all’unità infinita il numero non si può contrapporre perché essa ne è creatrice”[8]. Di fronte ad una dottrina tanto esplicita è difficile trovare pur un sentore di verosimiglianza nell’accusa dello Spaventa al Gioberti di aver ridotto Dio alla quantitas infinita di Spinoza[9].

L’infinito attuale è inconvertibile così con l’infinito numerico, come con l’infinito temporale. Anche i modi del tempo si limitano a vicenda come gli elementi dell’infinito numerico: il presente è limitato doppiamente dal passato e dal futuro, che da due partì lo stringono e lo assorbono continuamente; il passato e il futuro sono finiti, perché finiscono nel presente. Né questa finitezza del tempo si cura col prolungare infinitamente la serie temporale nel passato e nel futuro; in ogni caso ci si trova di fronte ad altro tempo, che limita il tempo, senza mai comprenderlo, cioè di fronte a quell’infinito-finito che fa alla pari coll’infinito numerico. La durata infinita del tempo non è che l’impossibilità di annullarne la finitezza [10]. Se non possiamo “comprenderlo”, possiamo “intenderlo”, argomentando l’esistenza della infinita attualità di una mente che “comprenda” il tempo, trascendendolo e creandolo: mente in cui l’espressione temporale non abbia luogo se non come perenne presenzialità, come eternità. “Il tempo non è eterno, ma nell’eterno”. Ad intendere l’eterno soccorre la riflessione, che trasloca nell’infinità attuale di Dio quel presente in cui noi viviamo e che rende presenti in noi il passato come attuale memoria e il futuro come attuale aspettazione: presente che tuttavia in noi è sempre inghiottito dai propri limiti e rapito dal fluire dei momenti, sicché esso vale non a costituire in noi, ma a significare in imagine l’eterno come presente puro, sciolto da ogni limite[11].

[…] I rapporti ontologici tra l’infinito e il finito sono già definiti dal processo gnoseologico, ora considerato, con cui il finito si eleva all’infinito: cioè, la sintesi dell’infinito col finito, dell’Ente coll’esistente, di Dio col mondo, non è di contenenza (Hegel, Krause), ma di creazione; la comprensione infinita del finito è per via di efficienza e non di contenenza o aggregato; l’infinito comprende infinitamente il finito, in quanto ha la virtù di produrlo sostanzialmente dal nulla [12].

É punto fermo nella dottrina del nostro che “Dio sendo infinito attualmente, non può creare un altro infinito dello stesso genere, cioè un altro Dio”. Però egli soggiunge tosto che Dio “dee creare un infinito inferiore, cioè potenziale, altrimenti il creato non risponderebbe alla dignità e idea divina… La realtà finita dee assomigliarsi alla realtà infinita. La realtà infinita è un atto puro, infinito. La realtà finita è una potenza infinita coniugata con un atto finito”»[13].

Fin qui il commento di Stefanini a Gioberti.

 

RIASSUMENDO, abbiamo incentrato il problema del rapporto scienza-fede in Stefanini nell’analisi dell’uso del termine infinito. Innanzitutto facendo attenzione al processo gnoseologico. Dall’intuizione psicologica o mentale della possibilità di considerare quel concetto, lo si è visto diversamente applicato in ambito scientifico e in ambito filosofico. Nel primo caso si tratta di un uso simbolico di tipo logico formale, senza riferimento alla realtà visibile ed esistente (simbologia formale); nel secondo caso il simbolo fa riferimento ad una realtà pur non visibile ma esistente (simbologia ontologica).

Il diverso impiego del termine infinito, precisato come ‘infinito quantitativo’ se usato nella misurazione numerica e ‘infinito qualitativo’ se usato con significato ontologico, si suole anche distinguere come infinito potenziale o infinito attuale. In questo caso ci si riferisce ad una realtà oltre quella visibile, ossia meta-fisica, un infinito che non si dà in senso numerico, ma come infinita distanza tra opposti, ad esempio essere e nulla, oppure tempo ed eterno. Come tale, l’infinito è uno solo, non in senso numerico ma nel senso che non è accostabile ad alcun altro infinito. Unità semplice, non soggetta ad accrescimento o diminuzione.

Poiché la domanda sulla provenienza del nostro essere, ossia l’esperienza che Stefanini definisce dato primordiale della nostra psicologia personale intorno all’ “io sono”, è domanda inevitabile, che non si acqueta nella ricerca sul piano biologico, ma si protende come curiosità sulla causa dell’essere che ci appare uscito dal nulla, lì la domanda (tragica e suggestiva) incontra un’indicazione contenuta nel dato di fede. In particolare, il dato della creazione dal nulla. La ragione, che è tutt’uno come sentimento pensiero e volontà, e che non si ferma al solo uso scientifico, legato alla pura logica astratta o sperimentale, ma si sente liberamente disposta all’ascolto di quel dato, può aderirvi senza avvertire una menomazione, ma piuttosto un’integrazione dei suoi limiti. È infatti proprio la consapevolezza dei propri limiti a renderla disponibile a tale integrazione, che non aggiunge un nuovo limite, ma un modo diverso di introdursi ad altre conoscenze, anche ad una conoscenza analogica, quale simbologia reale, non solo formale. A questo proposito, le recenti ricerche sul linguaggio, riferite da Chomsky, si prestano a interpretare un concetto di infinito applicato alle possibilità del linguaggio umano. Una conferma che la mente umana ha sì l’esperienza dei propri limiti, ma anche quella della necessità di oltrepassarli, come la filosofia induce (educe, direbbe Stefanini) a pensare, la scienza attua nel suo ambito, la fede propone con il suo messaggio. Come dire: se scienza e fede non si sovrappongono l’una sull’altra, se ne avvantaggia tutto l’uomo.

 

[1] “l’io può perdersi per neghittosità”  Mpf  212

[2] GIOBERTI, Protologia, v. I, pp. 341, 356. Cfr. S. TOMMASO, Summa Theol., I, q. 45, a. 5: «Quamvis creare aliquem effectum finitum non demonstret potentiam infinitam, tamen creare ipsum ex nihilo demonstrat potentiam infinitam…; si enim tanta maior virtus requiritur in agente, quanta potentia est magis remota ab actu, oportet quod virtus agentis ex nulla praesupposita potentia, quale agens est creans, sit infinita»; Summa c. Gen., L. I, cap. 43: «Illud quod omnino non est, infinite distat ab actu nec est aliquo modo in potentia; igitur si mundus factus est postquam omnino prius non erat, oportet factoris virtutem esse ìnfinitam».

[3] GIOBERTI, Protologia, v. I, p. 285.

[4] GIOBERTI, Protologia, v. I, p. 294. Per le suggestioni derivate a Gioberti dal tomismo nella formulazione della sua dottrina dell’infinito, cfr. il seguente passo della Summa c. Gent. L. I, cap. 43: «Intellectus noster ad infinitum in intelligendo extenditur, cuius signum est quod qualibet quantitate finita data intellectus noster maiorem excogitare possit. Frustra autem esset haec ordinatio intellectus in infinitum nisi esset aliqua res intelligibilis infinita; oportet igitur esse aliquam rem intelligibilem infinitam, quam oportet esse maximam rerum, et hanc dicimus Deum».

[5] V. supra, P. II, cap. IV.

[6] GIOBERTI, Protologia, v. I, pp. 323-4, 332, 337, 340-1, 350.

[7] GIOBERTI, Protologia, v. I, pp. 337, 339, 325.

[8] GIOBERTI, Protologia, v. I, pp. 249, 294, 339-344. Cfr. S. TOMMASO, Summa c. Gent., L. I, cap. 43: «Cum autem infinitum quantitatem sequatur, ut philosophi tradunt, non potest infinitas Dei attribui ratione moltitudinis, cum ostensum sit solum unum Deum esse, nullamque in eo compositionem, vel partium, vel accidentium inveniri… Ostendendum est igitur… Deum infinitum esse, non autem sic ut infinitum privative accipiatur, sicut in quantitate dimensiva vel numerali; nam huiusmodi quantitas nata est finem habere: unde secundum subtractionem eorum quae sunt nata habere, infinita dicuntur, et propter hoc in eis infinitum imperfectionem designat».

[9] SPAVENTA, La filosofia di Gioberti, p. 365.

[10] GIOBERTI, Protologia, v. I, pp. 400, 406, 413; cfr. 346: «L’infinito cosmico… non verrà mai infuturato attualmente nella totalità sua, e quindi si andrà sempre infuturando parzialmente, ma mai venirne a capo»; II, 452: «In imaginazione rinculiamo il principio del tempo; il che fare è porre il tempo nel tempo e non nell’eterno dov’è»; I, 402: «Illusione mimetica è il credere che l’eternità cresca a mano a mano che cresce il capitale del tempo; quasi che anche Dio si avanzi negli anni, attempisi ed invecchi».

[11] GIOBERTI, Protologia, v. I, pp. 208, 327, 329, 392-3, 403, 406; II, 453.

[12] GIOBERTI, Protologia, v. I, pp. 318, 335. 337; v. supra, P. I, cap. I, 4, d.

[13]   gip pp. 351-356

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