G. Cappello Giorgione, la tempesta e un romanzo del cinquecento

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G. Cappello Giorgione, la Tempesta e un romanzo del Cinquecento.da Luigi Stefanini. Dalle opere e dal carteggio del suo Archivio, Europrint, Treviso 2006, pp. 360-373

Nel 1941, anno di pubblicazione del saggio sui mistici, Stefanini, nel dicembre, presenta all’Accademia di Scienze Lettere e Arti di Padova una comunicazione in cui analizza il celebre dipinto del Giorgione, la Tempesta, alla luce dell’opera di un frate domenicano, Francesco Colonna, autore di un particolare romanzo, un’allegoria in cui tematiche medievali e umanistiche si fondono e si intersecano ([1]). Il romanzo del Colonna descrive una battaglia d’amore in sogno, ambientata nel trevigiano, in cui Polifilo (lo stesso Colonna) parla del suo innamoramento per Polia (Lucrezia in realtà). È un’opera singolare e misteriosa, ampiamente studiata ed analizzata anche di recente, che narra di un viaggio dell’anima, una sorta di pellegrinaggio onirico fatto di trabocchetti e prodigi, meraviglie e incubi, rovine classiche e giardini di delizie, fantastiche e iperboliche architetture, inquietanti e fascinose personificazioni allegoriche, ma anche eruditissimi disegni enciclopedici di miti, iscrizioni, emblemi, lapidari e bestiari, dotte ossessioni filologiche ([2]).

 

Vero opus imaginandi, anzi trionfo della vis imaginandi del Colonna ([3]), «caleidoscopio di simboli» ([4]), il romanzo ha sicuramente affascinato Stefanini, il quale, dopo aver detto dell’ampia diffusione di Hypnerotomachia nella cultura del tempo in cui fu scritta, stabilisce puntuali relazioni con il dipinto del Giorgione, tanto da poter affermare che se l’opera del Colonna offre spunti di riflessione al pittore ([5]), la Tempesta costituisce quasi il «commento coloristico al motivo centrale del romanzo del frate trevigiano» ([6]).    L’intento della comunicazione, tuttavia, sembra andare oltre la relazione tra un ‘romanzo’ ed un ‘dipinto’, per quanto significativa ([7]), per allargarsi ad una osservazione di metodo: la necessità che, nella comprensione e fruizione dell’opera d’arte, la «filologia» ed il «gusto» vadano di conserva per donare «un’esatta comprensione del mondo spirituale di cui si nutre la vena dell’artista. Non sarà mai detto che la sensibilità, per essere pura e schietta, debba rendersi immune, per l’artista che crea e il critico che ricrea, da codeste intime esperienze» ([8]). Si tratta di un saggio in cui Stefanini intende esercitare la critica d’arte come fatto che rientra nello specifico dell’estetica (Aesthetik) pur senza trascurare quello di una teoria generale sull’arte e sulla cultura (allgemeine Kunstwissenschaft) ([9]).   Nel saggio in questione, all’interno della «copiosissima» letteratura critica sul Giorgione, Stefanini rileva come da ogni contributo critico traspaia che «il godimento della figurazione giorgionesca non può essere perfetto, e resta in essa qualcosa discretamente conteso al nostro possesso, finché non sia rivelata non dico una significazione, […] ma un movente psicologico che, aggiungendosi all’unità stilistica e alla meravigliosa sinfonia coloristica, stringa con maggiore forza coesiva elementi figurativi comunemente dissociati e insolitamente congiunti» ([10]). Se l’intervento autorevolissimo di Lionello Venturi sottolinea come, nella Tempesta, «il soggetto è la natura: uomo, donna e bambino sono soltanto elementi, non i principali, della natura», Stefanini aggiunge che soltanto l’atmosfera di Hypnerotomachia scioglie ogni ermetismo e svela «l’intimo movente dell’ispirazione» del pittore ([11]).     Anche l’intervento critico di Arnaldo Ferriguto ([12]), storico dell’arte e compagno di studi di Stefanini, viene da lui citato ed analizzato. Ferriguto, estensore di due significative lettere conservate dall’Archivio, si era occupato in più riprese di Giorgione ([13]).   Ad esempio nel saggio sulla Tempesta aveva osservato che «tutta la tela intende esprimere la serena confidenza dell’uomo nella bontà fondamentale degli elementi, in quanto gli elementi costituiscono la sostanza prima dei corpi; del benessere, del malessere, della perenne trasformazione dei quali, sono i principali e costanti operatori. Giorgione, fedele alle premesse filosofiche della medicina del tempo, prescinde dai possibili, contingenti contrasti tra corpo umano ed elementi, per rivelarci il profondo, originario legame che li stringe, per asserire la verità primordiale ed essenziale del loro consorzio. […] La rotazione degli elementi è la prima necessità del fenomeno “vita”, la condizione fondamentale e imprescindibile della salute cosmica e umana» ([14]). «Sopra uno sfondo di caduche opere umane, la natura si esplica e inesorabilmente si afferma. Nulla può opporsi alla realizzazione del suo piano propulsivo, alla sua avanzata trionfale. Dalla materia all’anima dall’elemento all’intelletto, la gran madre del tutto si affatica e si tende. […] È così che, mentre gli elementi – animati ma inconsci – si trasformano con tonante irruenza, i componenti della “Famiglia” – dominati dall’“impassibile” intelletto dell’uomo si transustanziano tranquillamente» ([15]).   L’interpretazione del Ferriguto, dunque, intende sottolineare come il celebre quadro sia la rappresentazione della natura nel suo incessante evolversi, anche violento, in cui si inseriscono le opere dell’uomo, vedi le costruzioni e le rovine sullo sfondo, e l’uomo stesso, nella serenità che gli viene dalla consapevolezza di conoscere fini e leggi naturali. La cultura che fornisce al pittore gli spunti per il quadro, e che permette di decodificarne il significato, è la conoscenza dell’opera di Aristotele, finalmente liberata, per l’intervento degli umanisti, primo fra tutti Ermolao Barbaro, dalle interpretazioni che i pensatori medievali avevano inopportunamente sovrapposto al suo pensiero.    Nella monografia sul Giorgione, Ferriguto documenterà con ampiezza l’influenza che l’ambiente culturale della Serenissima Repubblica ed il rinnovato interesse per la lettura e l’analisi dei testi classici condotte da alcuni nobili e dotti veneziani avevano determinato sull’opera del Giorgione. L’intento di fondo dello studio è proprio di dimostrare come il significato delle tele giorgionesche sia in molti casi oscuro e poco comprensibile per il fatto che esse non sono state interpretate alla luce di quegli stimoli culturali che le hanno influenzate: «ogni quadro del pittore di Castelfranco (un contemporaneo di Leonardo!) è prima che opera di pittura, opera di pensiero» ([16]).    Se Stefanini presenta il suo saggio nel dicembre 1941, Ferriguto interverrà ancora sul Giorgione esattamente un anno dopo ([17]). È quasi un duetto tra i due studiosi ed amici, di cui anche l’epistolario conserva una significativa testimonianza.   Il saggio di Stefanini era stato preceduto da un’accurata indagine artistico-filologica, per la quale si era avvalso anche della consulenza dell’amico, come testimonia l’Archivio: «Caro Stefanini, ho riletto l’elenco e te ne do dati precisi (Aldo Ravà in Nuovo Archivio Veneto, Nuova serie, 1920 ([18])). Tra quelli di cui mi si dà il titolo, il libro non c’è. Però questo non vorrebbe dire, perché di molte carte e cartasse ([19]) elencate, l’elenco non dice il contenuto ([20]). Potrebbe darsi, dunque, che il libro ci fosse anche se l’elenco non ne registra il titolo; dimodoché la tua tesi non ne soffrirebbe ([21]). Ma il libro era, come tu sai, illustrato, e con illustrazioni di grande mano, tanto che qualcuno le attribuisce a Giambellino ([22]). Ora è un po’ difficile che uomini, anzi artisti come Alessandro Vittoria, Sansovino, Tintoretto, i quali stesero, come forse saprai, l’elenco, si lasciassero sfuggire e lasciassero indeterminato un libro così riccamente illustrato. Controlla tu stesso: e vedrai che, sempre che i libri siano illustrati, quegli artisti citano le loro pregiate illustrazioni (“pesci miniadi”, “volatili dipinti”, uccelli, stampe di Dürer, Raffaello eccetera). Vedrai poi, leggendo, che Gabriel Vendramin ([23]) raccomanda a suo nipote “lo studio de le letare” e non la lettura dei romanzi. Le “letare” erano nel ‘400 una cosa ben più ampia. Lo “studio de le letare” era raccomandato subito dopo la “navigatione” e prima della “mercantia” e dei guadagni materiali ([24]). E queste “letare” sono per me lo scibile intero e in particolare quello greco-romano allora allora risorto ([25]) (vedrai, scorrendo quell’elenco, che il committente possedeva molti oggetti d’arte e statue e statuette antiche tra cui Veneri nude e Cupidi e vasi greci istoriadi e “torsi e torseti” con panni e “panesini” e Veneri con Satiri a lato eccetera eccetera: una delle tante raccolte di opere d’arte, specialmente greca, possedute dai tanti nobili veneziani che se ne dilettavano([26])). Nessuna necessità, dunque, di ricorrere in particolare alle illustrazioni e descrizioni del romanzo che è una delle tante cose che Giorgione può aver viste, non la sola. Anzi ti confesso che per la sua sensualità spiegata quel romanzo è, per me, più vicino alla Venere con Satiro di altro grande (Louvre) ([27]) che a quella casta di Giorgione (castissima anche se nuda) ([28]); tanto che il romanziere ([29]), a leggerlo direttamente, parla di molte altre cose: anche a proposito dell’accostamento più persuasivo di primo acchito, quello di Amor sacro e profano. Nei riguardi della Tempesta non ti pare poi che la rappresentazione della “navicella” sarebbe stata essenziale al simbolo? ([30]) E che quel ponte di legno, piantato nell’acqua, sbarri quel fiumetto invece e resechi ogni idea di navigabilità? Ad ogni modo ti consiglio di leggere il libro del De Minerbi sugli stemmi del quadro (Milano, Alfieri e Lacroise) ([31]). È un libro confuso di altro amico mio, ma che potrebbe darti ragione sulla “centrica sperula” e sul “drago mortifero” di cui tu parli: non un “leone marciano” ma una chimera è, per il De Minerbi, lo stemma ([32]). Ed in questo ha, per me, ragione (non nel resto, ahimè!). Vedi tu e perdonami. Ti scrivo privatamente quello che penso, perché celarti questi miei dubbi e nasconderti che io continuo a pensare al panta rei della fisica antica allora risorta non parrebbe, a mio parere, leale, tanto più con un amico ([33]). Ti manderò presto altro scritto mio ([34]) dove tacerò tutti i dubbi che sento il dovere di suesporti in questa lettera e darò il massimo risalto a punti in cui siamo d’accordo ([35]). Addio e cose buone dal vecchio aff.mo Ferriguto» ([36]).   Significativi i temi affrontati dalla lettera: dal ruolo dei simboli e degli stemmi nell’opera di Giorgione, e dunque dalle proposte per una loro lettura, all’obiezione di fondo per cui, secondo Ferriguto, alla base del pittore di Castelfranco ci sarebbe la nuova cultura degli umanisti e degli scienziati dello stato veneto e dello studio patavino, liberata dagli impacci e dai freni della cultura medievale e dell’aristotelismo degli epigoni ([37]).   Risponde Stefanini: «Caro Ferriguto, ti ringrazio dell’indagine accurata che hai fatto e di cui mi dai notizia. Che non ci sia l’opera nella biblioteca del committente non basta a sbancarmi … Il riferimento a quel catalogo è fatto come un di più; ma non è detto che Giorgione non conoscesse la Hypnerotomachia solo perché il committente non l’aveva tra le sue opere. Non è nemmeno da chiedere, credo, l’esattezza dell’imagine con la navicella e il drago: il motivo può essere liberamente variato senza che per questo esso venga annullato. Mi pare che troppi elementi convincano dell’affinità tra la situazione del romanzo e il quadro. Tanto più che il rapporto che io stabilisco, come hai letto, non smentisce la tua interpretazione, ma la specifica: più che di astratte concezioni metafisiche, debbo supporre si tratti di concrete rappresentazioni in cui quei concetti erano diventati imagine. E mi pare che troppi sono i riscontri tra le imagini del quadro e le imagini del romanzo per escludere un’affinità» ([38]).   In sostanza Stefanini rimane del suo parere: la categoria storico-filosofica dell’imaginismo è la trama interpretativa con cui leggere il dipinto giorgionesco ed il romanzo per poterli relazionare adeguatamente. Sembra aver convinto anche l’amico Ferriguto, che ammette: sì Giorgione potrebbe aver letto direttamente Hypnerotomachia anche se il committente non la possedeva tra le opere della sua biblioteca.    Ecco la risposta: «Caro Stefanini, ho la tua del primo giugno. Sì, Giorgione può aver letto direttamente. Ma quel Polifilo che, anziché con Polia – o con Logistica ([39]) – è con Venere (se ho ben capito), la quale compare in tutt’altro episodio del libro! ([40]) Non ti pare che una “sintesi del romanzo” avrebbe dovuto suggerire soprattutto l’idea di Polifilo e Polia? E se si tratta dell’episodio del labirinto di Polifilo e Logistica ([41])? Mi sono letto tutto il romanzo (qui ce n’è una edizione che ha illustrazioni che a Venezia non si vedono ([42])). Secondo me, fonte comune e del quadro e del romanzo è la cultura umanistica e l’arte greca rivalutata a Venezia (collezioni Vendramin, Grimani ecc.). Su questo punto nessun dubbio (tanto è vero che il romanzo è stato stampato a spese di L. Crasso, corrispondente di Almirò Barbaro e dedicato al Duca d’Urbino, altro corrispondente di Almirò Barbaro ([43])); ma non c’è derivazione diretta dell’uno dall’altro. Così almeno io penso e non ti nascondo il mio pensiero. Fonte comune sì, e tu l’hai sentita con fiuto non fallace. Non vengo da molto tempo a Padova, e così ti scrivo quello che avrei preferito dirti più diffusamente. Tanti affettuosi saluti dal tuo vecchio aff.mo Ferriguto. P.S. A pag. 20, tu riassumi il mio pensiero legando il soggetto “ai dotti dello Studio padovano” e nella tua lettera parli di “metafisica”([44]). Bada che io ho sempre parlato di fisica greca risorta, e a Venezia e nelle scuole aperte a Venezia (cfr. pagg. 165-166 del mio studio su Giorgione ([45])), contro lo studio di Padova» ([46]).   Singolare e interessante testimonianza delle discussioni tra due studiosi di differente formazione, filosofo l’uno, storico e letterato l’altro, nell’incontro-scontro tra due modi diversi di lettura dei testi letterari e pittorici, con la felice complicità della ben difficile interpretazione dei dipinti giorgioneschi ([47]). Dalle loro lettere, più vivaci ed immediate rispetto ai saggi già pubblicati che hanno un tono controllato ed accademico, emerge con chiarezza come nei due studiosi sia presente un modo molto diverso di intendere la cultura umanistico-rinascimentale. È spirituale e mistica per Stefanini, concentrata nel rapporto sacro-profano nel tentativo evidente di privilegiare l’aspetto della spiritualità e della saggezza che si possono leggere in filigrana attraverso lo strumento del simbolo e dell’imagine. È laica e naturalistica, invece, quella dell’amico per il quale alla base della cultura quattro-cinquecentesca si erge l’operazione degli intellettuali veneti, primo fra tutti Ermolao, nella lotta all’aristotelismo di maniera dello studio di Padova e nel tentativo di restituire il pensiero dello Stagirita all’autorevolezza dei suoi testi originali, tradotti direttamente dal greco, svincolati dalle glosse degli interpreti medievali, siano stati arabi, ebrei o cristiani.   Se per Stefanini la navicella del destino può passare («discende fatalmente senza poter retrocedere») attraverso lo stretto fiumicello della Tempesta giorgionesca passando accanto, e superando, le «lusinghe corruttrici», a Ferriguto, invece, sembra che quel «ponte di legno, piantato nell’acqua, sbarri quel fiumetto invece e resechi ogni idea di navigabilità».   Se per Stefanini la Tempesta è orto del destino, per Ferriguto «la “Tempesta” di Giorgione è un elogio della vita, come movimento e trapasso generale della natura, come palingenesi terrestre o, con parole d’allora, “sublunare”. Occasione la fisica antica risorta: colla sua terra inquieta, i suoi elementi in travaglio» ([48]). È indicativo che quando l’uno parla di metafisica, l’altro si affretti a rispondere che di fisica si tratta ([49]).   L’importanza del saggio, più volte ristampato ([50]), è testimoniata anche dalla lettera di Ettore Paratore, latinista, collega di Stefanini nel periodo messinese e con lui in corrispondenza fino agli anni Cinquanta ([51]). Anche Paratore elogia metodologia e contenuti: «Caro Stefanini, grazie mille volte grazie del dono gentile e prezioso. Ma perché mortificarmi con una dedica in cui la tua benevolenza per me assume toni così eccessivi? La piccolezza e la grandezza non si misurano col numero delle pagine; e il tuo bellissimo lavoro raggiunge un risultato definitivo che lo consacra all’attenzione di tutti gli studiosi. Puoi immaginare come io sottoscriva toto corde alle tue parole conclusive ([52]); e come io mi rallegri che, per questa via della Kulturgeschichte (l’unica valida per me a risolvere certi problemi) tu ponga un fermo inamovibile a quello slittamento, a quella furia demolitrice dalla quale da tempo è invasata la critica d’arte nel dare addosso al mito di Giorgione, nel negare non solo l’importanza, ma a momenti anche l’esistenza dell’enigmatico pittore, concentrando ogni interesse solo su Tiziano giovine ([53]). Il tuo magistrale lavoro, che rinnova ancora una volta i fasti della scuola padovana, benemerita ricercatrice nei campi sterminati dell’ultimo Medioevo e del Rinascimento in Italia, è destinato ad imprimere un impulso benefico e decisivo a tutto lo studio del ponderoso problema giorgionesco e, in genere, della pittura veneta all’alba del secolo XVI, dalla formazione di Tiziano e dei suoi rapporti con Giorgione; tanto più che l’opera che tu additi come fonte della Tempesta è già stata studiata in rapporto con opere del primo periodo tizianesco, come Amor sacro e amor profano, di cui proprio tu additi una convincente affinità con l’Hypnerotomachia. Ecco un risultato luminoso della filologia e della storia della cultura applicate alla critica d’arte: tanto più luminoso in quanto viviamo in tempi in cui la critica d’arte disprezza con borioso fastidio questi contributi che le sembrano intrusioni poco meno che illegali! Colgo l’occasione per comunicarti che dal primo dicembre sono stato trasferito alla Facoltà di Magistero dell’Università di Torino ([54]). Certo non mi sorrideva molto la prospettiva di tornare al Magistero: ma la smania di uscire dal dimenticatoio siciliano mi ha fatto accettare volentieri la chiamata unanime dei colleghi di lassù. Esprimendoti di nuovo i miei fervidi ringraziamenti, torno a formulare i migliori auguri per te e per tuoi, ti comunico che aspetto a giugno un nuovo rampollo (che spero possa essere … il principe ereditario!), e ti abbraccio. Aff.mo Ettore Paratore. P.S. Mi soccorre in questo momento il ricordo che anche per la Madonna di Castelfranco – la prima, in ordine di tempo, fra le poche opere di cui si possa riconoscere la paternità giorgionesca – è da presupporre, per il caratteristico sfondo (il tempio pagano e il castello medioevale in rovina), una fonte umanistica, di evidente carattere simbolico. Sarebbe una riprova degli speciali stimoli da cui era mossa la fantasia di Giorgione e una conferma alla tua magnifica scoperta» ([55]).    Le osservazioni del latinista Paratore concludono in modo significativo una lunga e interessante discussione, sia dal punto di vista dei contenuti che della metodologia di ricerca, che consente di coniugare con frutto storia della cultura e storia dell’arte.

[1] La Tempesta del Giorgione e la Hypnerotomachia di F. Colonna, «Atti e memorie della R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Padova», 1941-42, vol. LVIII, pp. 1-18 (da cui citiamo), ristampata in Arte e critica, Principato, Milano 1942 (pp. 251-267); ristampata ancora come opuscolo a sé stante Il motivo della Tempesta di Giorgione, Liviana, Padova 1955.

[2] L’opera del Colonna, edita a Venezia nel 1499 per i tipi di Aldo Manuzio, rappresenta un’autentica preziosità bibliografica in quanto viene considerata una tra le più belle edizioni aldine del Quattrocento, «il capolavoro del Manuzio», impreziosita da pregevoli incisioni. È conservata nella Biblioteca Comunale di Treviso: F. COLONNA, Hypnerotomachia, ubi humana ommia non nisi somnium esse docet, per Aldum,Venetiis 1499 (segnatura: 12488). Di essa è stata elaborata una raffinata edizione critica: F. COLONNA, Hypnerotomachia Poliphili, ed. critica e commento a cura di G. POZZI e L. A. CIAPPONI, Antenore, Padova 1980 (2 voll.). Di recente è apparsa anche una riproduzione anastatica: F. COLONNA, Hypnerotomachia Poliphili, Adelphi, Milano 1998 (2 voll.). Si tratta della riproduzione dell’edizione aldina del 1499, con introduzione, traduzione e commento di M. ARIANI e M. GABRIELE, di cui si segnalano in particolare: M. GABRIELE, Il viaggio dell’anima, pp. IX-XX; M. ARIANI, Il sogno filosofico, pp. XXI-LXII e L’Autore del Polifilo, pp. LXIII-XC. La scelta di porre l’attenzione su di un’opera riscoperta ed ampiamente studiata in tempi molto vicini ai nostri, è ancora testimonianza del ‘fiuto’ di Stefanini per tematiche ed opere che soltanto dopo decenni saranno ristudiate e valorizzate.

[3] Così l’Introduzione alla edizione per Adelphi (pp. XX-XXI). Hypnerotomachia, «interamente costruita secondo le regole della mnemotecnica classica e medievale, mezzo retorico per ricordare puntualmente la trama di complessi discorsi o ragionamenti procede, come è noto, per luoghi e per immagini; con i primi si intende una successione di spazi, per esempio una teoria di stanze, con i quali si configura l’architettura del discorso, la posizione delle parole e delle frasi, con le seconde una serie di figure simboliche che contengono ed esprimono i significati del discorso medesimo, ossia delle cose che vogliono ricordare. Ponendo le immagini nei luoghi dovuti, per esempio un simbolo in ciascuna stanza, ecco che nasce una trama narrativa logica, consequenziale e completa» (p. XXIII).

[4] Ivi, p. XVI. Hypnerotomachia è un vero «caleidoscopio di simboli come mai era stato fatto prima e non lo sarà dopo dalla prolifica letteratura del “luogo che non c’è”». «Libro straordinario e unico – conclude il curatore – da studiare come un solitario capolavoro adespoto, ma perfettamente autosufficiente nell’offrire tutti i segni della propria inaudita complessità» (Ivi, p. XC).

[5] «La natura, ch’è indubbiamente soggetto e oggetto del quadro, si manifesta qui talmente sottoposta al gioco di forze elettive e a sintesi remote da un’ingenua impressione paesaggistica o di campestre idillio – una nudità impassibile sotto la tempesta, la presenza di un uomo assorto ed assente, sagome improvvise di ruderi senz’altra traccia di rovine all’intorno, un tempio orientale presso torri medievali, i capricci di un fiume che si dilata in riviera specchiale e si restringe in tortuosi meati – che l’occhio dell’osservatore resta sorpreso da un’impressione di frastaglio e sconnessione finché non gli sia dato di cogliere la scena traverso quell’esperienza spirituale, densa di risonanze affettive fantastiche concettuali, da cui la visione ebbe nascimento. Immessi nell’atmosfera di Hypnerotomachia ogni ermetismo del quadro si scioglie e lo sguardo seconda facilmente l’arbitrio dell’artefice che sulla natura operava il più ardito gioco di elezione e di astrazione per adeguarla all’intimo movente dell’ispirazione» (La Tempesta del Giorgione e la Hypnerotomachia, pp. 14-15).

[6] «Il processo della vita umana che, dall’età giovanile delle tempestose passioni, giunge all’epilogo nella maturità feconda, fondendo il suo ritmo con quello della natura, in un concerto di forze disgregatrici e riparatrici. Non è soltanto la rovina antica che rinverdisce, né soltanto anelito della passione che si placa nella serenità della generazione. Ora le torri insidiose e i castelli incantati e il simbolico fiume si trasfigurano nella gamma modulata dell’impressione paesaggistica; e il baleno folgora nel cielo, più che a suscitare il brivido dello spavento, a illuminare la scena della vita rinascente. Duplice unitaria celebrazione della natura e della vita umana in imagine e in concetto» (La Tempesta del Giorgione e la Hypnerotomachia, p. 13).

[7] «Col rilevo dell’indubbia relazione che congiunge Hypnerotomachia del Colonna all’Orto del Destino [La Tempesta] di Giorgione non si pretende di svelare il mistero dell’opera del grande colorista veneto. La bellezza, espressa in linee ombre colori, non ha misteri per chi sappia vedere e sentire. Nemmeno s’intende qui ridurre l’opera giorgionesca ad allegoria o simbolo. Pur ammesso, come si sarebbe disposti ad ammettere, che l’allegoria possa aver presa su un autore del Rinascimento, il senso figurato vi resterebbe in ogni caso estrinseco alla figurazione e la sostanza propriamente coloristica dell’opera resterebbe immune da sovrastrutture di ordine concettuale o didascalico. Il significato della presente memoria è consapevolmente limitato a manifestare quel “movente spirituale” o quel “nucleo generatore” che, come non può mai mancare nella comprensione dell’arte, così si aggiunge, come essenziale nota coesiva, nel godimento della eletta fattura del genio di Giorgione. La filologia non basta alla critica e al gusto, ma nemmeno il buon gusto e un’eletta sensibilità bastano alla critica ove questa non sia integrata dei sussidi che rendono esperta la sensibilità donando un’esatta comprensione del mondo spirituale di cui si nutre la vena dell’artista» (La Tempesta del Giorgione e la Hypnerotomachia, p. 16).

[8] La Tempesta del Giorgione e la Hypnerotomachia, p. 17.

[9] Così si esprimerà più compiutamente nel suo Trattato di estetica, precisando: «L’artistico può esorbitare dall’estetico solo quando i fattori tecnici, morali, psicologici e via dicendo esorbitino essi stessi dall’arte e sopraffacciano l’arte, soffocandola» (p. 19).

[10] La Tempesta del Giorgione e la Hypnerotomachia, p. 14.

[11] La Tempesta del Giorgione e la Hypnerotomachia, p. 14. La citazione è da L. VENTURI, Giorgione e il giogionesimo, Hoepli, Milano 1913.

[12] Arnaldo Ferriguto, letterato e storico dell’arte, per il quale si vedano L. FIUMI, Da Aleardo Aleardi a Arnaldo Ferriguto, «Arena di Verona», 12 ottobre 1966 e E. PAGANUZZI, Arnaldo Ferriguto, «Il Faustino», 1976, pp. 23-25, è amico ed ex compagno di studi di Stefanini e da lui citato in tono elogiativo: «Un’indagine accurata e amorosa in una zona più vicina al mondo spirituale del Giorgione è stata condotta da A. Ferriguto il quale, riconnettendo la Tempesta al pensiero della rinascita padovano-veneziana e in particolar modo alle scienze della natura, trova «il pensiero e l’asserto centrale del quadro» nella proposizione: “la materia elementare intesse la materia umana e rimane con essa in costante rapporto di tutela”» (La Tempesta del Giorgione e la Hypnerotomachia, p. 15).

[13] A. FERRIGUTO, Il significato della “Tempesta” di Giorgione, Draghi, Padova 1922 e poi nella corposa monografia: A. FERRIGUTO, Attraverso i misteri di Giorgione, a cura della Città di Castelfranco, 1933 (438 pp.). Dei rapporti tra Giorgione e la cultura veneta del tempo Ferriguto si era occupato anche nel suo studio su Ermolao Barbaro (cfr. infra).

[14] FERRIGUTO, Il significato della “Tempesta”, pp. 5 e 8.

[15] Ivi, pp. 17 e 20.

[16] FERRIGUTO, Attraverso i misteri di Giorgione, p. 106. È intento di base dell’opera del Ferriguto il dimostrare questa stretta relazione tra cultura e pittura. «Cercando qua e là e vagando nel campo e nel mondo della storia letteraria e colturale, nessuno tenne conto mai dell’ambiente letterario specifico che circondò e avvolse il pittore nei suoi anni operosi: di quell’ambiente veneziano, cioè, nella cui atmosfera di pensiero e di coltura Giorgione visse e respirò lungo il corso di tutta la sua vita. […] Delle ideologie ispiratrici e animatrici dei quadri sarà additata la diffusione nei libri degli scrittori del tempo, nelle opere dei poligrafi, negli scritti e nei quadri degli stessi pittori. […] Si chiariranno le cause di smarrimento del significato dei quadri; e si parlerà inoltre, per la prima volta (fermandone e documentandone le relazioni con i letterati del tempo) dei committenti di Giorgione come suggeritori e ispiratori di soggetti delle opere che ci rimangono» (Ivi, pp. 23-25).

[17] A. FERRIGUTO, Ancora dei soggetti di Giorgione (ombre nei sottoquadri, stemmi nella “Tempesta”), «Atti del Reale Istituto veneto di scienze lettere ed arti», 1942/43, tomo CII, parte II, Classe di Scienze morali e Lettere, pp. 403-418; conservato dalla Biblioteca di Stefanini, con dedica.

[18] ALDO RAVÀ, Il “camerino delle antigaglie” di Gabriele Vendramin, «Nuovo Archivio Veneto», Nuova Serie, XXII, 1920, pp. 155-181. Il saggio è molto significativo ai fini della discussione che si sta svolgendo tra Stefanini e Ferriguto. Nel saggio, infatti, Ravà analizza il minuzioso inventario del camerino delle antigaglie del nobile veneziano Gabriele Vendramin (della famiglia di Andrea Vendramin, doge dal 1476 al 1478), committente della Tempesta (cfr. note 207 e 209). Questi, con testamento del 3 marzo 1547 aveva lasciato i suoi nipoti eredi di un ingente patrimonio, vincolando però il camerino, al quale era affezionato, a specialissime condizioni e facendone preparare un inventario minuzioso nientemeno che dallo scultore Tommaso da Lugano, Sansovino, Alessandro Vittoria, il Tintoretto e Orazio Vecellio, figlio di Tiziano. «Chi si sorprendesse che così grandi artisti non abbiamo disdegnato di prestarsi ad un incarico per il quale si chiamavano comunemente un orefice o magari un venditore di mobilia, deve pensare che l’amore per le arti belle e il mecenatismo di Gabriele Vendramin non potevano non avergli procurato – come pure a tutta la famiglia – l’amicizia dei più eletti ingegni: basti dire che uno dei testimoni del codicillo testamentario è stato Tiziano in persona». Quanto all’inventario «è incredibile come egli sia riuscito a raccogliere un così gran numero di belle cose: quadri, bronzi, marmi, stampe, disegni, oggetti di scavo e di curiosità, nulla è sfuggito ai suoi occhi indagatori, alle sue pazienti ricerche» (p. 159).

[19] Venetismo per “cartacce”.

[20] In effetti nell’inventario pubblicato dal Ravà non compare certamente il titolo Hypnerotomachia. È comunque chiaro che un elenco di libri stilato in questo modo: «Un libro grando con 25 carte in stampa de rame con 16 carte disegnade a man de diversi valenthomini. Un libro in 4° coverto de cuoro rosso con 57 carte a man de man de diversi valenthomini.  Un libreto in 4° coverto de cuoro rosso pien de cartine in stampa de rame et de legno. Un altro libreto in 8° con dusento cartine a stampa de rame. Un altro libro in 4° coverto de cuoro cremesin con la passion de Alberto Duro in stampa de rame, i 12 Apostoli, i 4 evangelisti et diverse altre carte de man del medesimo et de diversi authori. Un altro libro in 4° coverto de cuoro cremesin con la passion de Christo fatta de un tagio grosso parte de Alberto Duro et parte de altri» (p. 174, l’elenco è molto lungo e citiamo solo a modo di esempio), non può essere unico elemento decisivo per escludere la presenza di Hypnerotomachia nella biblioteca del Vendramin. Pare dunque probabile, come sosterrà Stefanini, che tra i testi posseduti dal committente della Tempesta vi sia il romanzo di Francesco Colonna.

[21] Infatti Stefanini, nel saggio in questione, dice: «Gabriele Vendramin, committente della Tempesta possedeva nella sua libreria, come è stato diligentemente rilevato dal Ferriguto [nota di Stefanini: A. FERRIGUTO, Attraverso i misteri di Giorgione, a cura della Città di Castelfranco, 1933, p. 395] “molti disegni stampidi in carta cum rame et legno parte posti in alguni libri, e una parte fora da essi libri”: possedeva cioè libri illustrati tra i quali non poteva mancare l’eccellente edizione aldina di Hypnerotomachia la quale per un altro motivo – attraverso l’influenza del committente, influenza che in quei tempi poteva ancora essere decisiva nell’orientare l’ispirazione dell’artista verso un determinato soggetto – era proposta all’attenzione del giovane pittore di Castelfranco» (p. 8).

[22] Per quanto riguarda l’attribuzione della paternità delle 171 xilografie di Hypnerotomachia (con le 25 figure di commento al testo) si rinvia ai risultati delle due edizioni più recenti (ed. Antenore, pp. 12-17, ed. Adelphi, pp. XCVI-CIX). In particolare quest’ultima riferisce il parere di P. d’ESSLING, Les livres à figures venitiennes de la fin du XV siècle et du commencement du XVI, Florence-Paris 1874-1914, il quale ritiene di aver sufficientemente dimostrato che l’esistenza di un monogramma b sulle xilografie non giustifica il vedervi la mano di Giovanni Bellini, Jacopo dei Barbari o Benedetto Montagna. Questi monogrammi sono «simples marques en usage dans les ateliers xylographiques» (p. CII). Le xilografie furono perciò elaborate da una bottega veneziana dove lavoravano e collaboravano diversi disegnatori e incisori, attiva almeno tra il 1490 ed il 1499 (p. CIV). Le incisioni della Hypnerotomachia si affermarono pertanto come «il colto frutto di un’arte di bottega, eterogeneo nella sua formulazione artistica e dove convivono invenzioni stilistiche e figurative accanto a modelli espressivi già collaudati, in un sincretismo la cui variegata ricchezza formale e concettuale costituisce lo specchio forse più fedele delle imprese artistico-tipografiche nella grande stagione degli incunaboli veneziani» (p. CV).

[23] È il ventiseienne committente della Tempesta. Anche di questo elemento Ferriguto si serve per chiarire come il rinnovamento della cultura passasse proprio attraverso i nobili giovani e aperti alle suggestioni della cultura classica, della lettura diretta dei testi. Gabriele Vendramin era imparentato con la famiglia dei Barbaro, Ermolao e Daniele (Cfr. alberi genealogici delle rispettive famiglie in FERRIGUTO, Attraverso i misteri di Giorgione, pp. 193-195). Ferriguto conclude: «Per opera di parenti di Gabriele il baricentro della coltura si era recentemente spostato dagli studi metafisici ai fisici: pensare che alla “Fisica” ed alla visione del mondo fisico dello Stagirita il quadro si colleghi, è inquadrarne il “problema” nei suoi veri termini» (p. 198). Oltre all’opera di un umanista della fama di Ermolao si può aggiungere che Daniele Barbaro, suo nipote, fu il famoso traduttore cinquecentesco dell’opera di Vitruvio (per Daniele Barbaro e la sua importanza nella cultura veneta del Rinascimento G. SANTINELLO, Tradizione e dissenso nella filosofia veneta, Antenore, Padova 1991, pp. 91-115, saggio dedicato all’analisi di Filosofia e architettura in Daniele Barbaro).

[24] Navigazione, studio delle lettere ed esercizio della mercanzia, secondo il Vendramin, sono gli «unichi tre modi che seguendoli et la famiglia et la patria vostra siate per esaltare» (RAVÀ, Il camerino, p. 156).

[25] Riferimento evidente agli studi umanistico-letterari riscoperti tra XIV e XV secolo.

[26] Elenco in RAVÀ, Il camerino, pp. 161-181.

[27] È il celebre Venere e Amore spiati da un satiro, dipinto olio su tela di cm.188 per 125, realizzato circa nel 1528 dal Correggio. Rappresenta Venere mentre dorme con il figlio Eros; dietro di loro un satiro scopre la dea. In un primo momento venne identificato il soggetto come Zeus e Antiope: il dio si trasformò in satiro per sedurre la ninfa. Si ritiene che questa tela fosse il pendant di un’altra tela allegorica raffigurante L’educazione in Amore, ora alla National Gallery di Londra (Catalogo on line del Louvre www.wikipedia.org.).

[28] Infatti Stefanini dice: «La Venere di Dresda instaura il tipo della bella distesa e dormiente, il cui molle abbandono è scolpito in perfezione stilistica nella forma affusolata delle membra» che egli paragona alla sensuale descrizione di una bellissima Ninfa addormentata fatta dal Colonna. Il rilievo è occasione per osservare come anche Amor sacro e amor profano del Tiziano possa essere stato influenzato dalla lettura della Hypnerotomachia. Alla Venere di Dresda Ferriguto dedica un’analisi particolareggiata: «Niente d’impudico nella sua “Venere”, ma, a un tempo niente di metafisico. Non è [Giorgione] come fu erroneamente asserito, un sensuale: solo sa esserlo quando occorre e sa donare alla sua dea tutto il fascino della sensualità eloquente (anche se, ripeto, inconscia e ignorata) che il tema richiede» (FERRIGUTO, Attraverso i misteri di Giorgione, pp. 223-244, p. 243 per la citazione).

[29] Cioè Francesco Colonna.

[30] Stefanini, nel suo La tempesta afferma: «Il canale tortuoso lungo il quale discende fatalmente, senza poter retrocedere, la navicella della vita umana, passa accanto a sei “torri” o “specule”, nelle quali albergano le lusinghe corruttrici o si nascondono le insidie mortali. Ninfe leggiadre rasserenano da prima il cielo della vita, il quale s’infosca poi “tetro et illumino” verso la “centrica specula”, quando appare il “drago mortifero” delle violente passioni. Dissipate le illusioni e vinte le insidie, il cupo cielo della tempesta si rischiara quando, discendendo verso la quinta torre, la mente acquista limpidezza quasi “speculare” di comprensione» (p. 14).

[31] P. De MINERBI, La Tempesta di Giorgione e l’Amore Sacro e Profano di Tiziano nello spirito umanista di Venezia, Milano 1939.

[32] A. FERRIGUTO, Almorò Barbaro. L’altra cultura del settentrione d’Italia nel 400, i “sacri canones” di Roma e le “sanctissimae leze” di Venezia, Miscellanea di storia veneta. Edita per cura della R. Deputazione Veneta di Storia Patria, serie terza, XV, Venezia 1922 (si tratta di una corposa monografia di 512 pp.). Ferriguto nel saggio Ancora dei soggetti di Giorgione, quello inviato a Stefanini, analizza il simbolo della «chimera» (pp. 414-415), anche se egli ritiene che «pittore e uomo della Rinascita, Giorgione è lontano da ogni astratta forzatura di simbolo, e, pur inseguendo un pensiero, lo riveste costantemente delle più soavi parvenze della realtà naturale» (FERRIGUTO, Attraverso i misteri di Giorgione, p. 106).

[33] A. FERRIGUTO, La fisica della Rinascenza e un soggetto d’un capolavoro, «Nuova Rivista Storica», X, 1926, 6, pp. 30-45.

[34] Il riferimento è al già citato saggio di FERRIGUTO, Ancora dei soggetti di Giorgione (ombre nei sottoquadri, stemmi nella “Tempesta”). Nella nota di p. 408 Ferriguto dice: «Che la “Tempesta” sia duplice unitaria celebrazione della vita umana in immagine e in concetto, pensa ora anche il mio trevisanissimo amico, e caro compagno di studi, prof. Luigi Stefanini (La Tempesta di Giorgione, Memorie della R. Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Padova, 1941-42); ma attraverso “la mediazione” d’un romanzo del tempo, la Hypnerotomachia di Francesco Colonna». Fedele alle promesse Ferriguto tace le sue perplessità. Di lui altro studio importante è: Il significato della “Tempesta” di Giorgione, Draghi, Padova 1922; è «l’altro» scritto di cui parla lo stesso Ferriguto e di cui Stefanini si serve per il suo saggio.

[35] L’unica citazione del saggio di Stefanini è quella riportata alla nota precedente. Tuttavia un punto sul quale i due studiosi sono d’accordo è quello riguardante l’interpretazione della chimera: «Nessuna meraviglia che il pittore abbia qui stilizzato a chimera, accentuati i caratteri di chimera del mostro marciano. “La chimera – scrive il de Minerbi – fu l’immagine che simbolicamente significò distruzione”; e, a parte ciò che poi ne ricava, ha ragione. Gliela diamo volentieri. Tutta l’antichità, e il Rinascimento con essa, considerò il mostro come l’incarnazione di forze fisiche distruttrici (tempeste, incendi, distruzioni)» (FERRIGUTO, Ancora dei soggetti di Giorgione, p. 416).

[36] Archivio Stefanini, corrispondenza A. Ferriguto, Verona, 28 aprile 1943.

[37] È l’assunto fondamentale anche della monografia di Ferriguto su Ermolao Barbaro (vedi nota supra).

[38] È una delle pochissime lettere di Stefanini che l’Archivio conserva, insieme alle due di Ferriguto; è la velina di una lettera scritta a macchina, inviata da Padova, 1 giugno 1943 al prof. Arnaldo Ferriguto. Stefanini, come al solito, scrive «imagine».

[39] Come afferma Stefanini, Logistica è la «ninfa della saggezza», contrapposta alla sensualità di Venere. «Il corso della vita umana dalla prima infanzia sino alla maturità, è rappresentato dall’ Orto del destino: “uno horto di latissima circuitione” i cui circulari meati non calcabili, ma navigabili» (La tempesta di Giorgione e la Hypnerotomachia, p. 14).

[40] L’incontro tra Polifilo e Polia è descritto nel primo libro (in particolare capp. X-XIII): accompagnato da Logistica e Telemia (Ragione e Volontà), Polifilo visita il regno di Venere Pandemia, l’isola di Citera «eutopia di Venere generativa e ferace sovrana del giardino mondano, su cui tiranneggia l’eros vulgaris)» (Introduzione, pp. XVI-XVII, ed. Adelphi), mentre nel libro secondo (capp. XXVIII-XXX) c’è l’incontro con Venere Urania, nel regno dell’amore celeste. «Il primo libro è dedicato all’amore terreno, il secondo a quello celeste, a Venere Urania, si coniugano i due estremi di ogni possibile amore, in un incommensurabile, mediano nodo simbolico che pacifica, in più alto grado, il corpo e l’anima, senza più battagliare, nel comune reciproco donarsi. È il risveglio e la fine della Hypnerotomachia» (p. XVIII).

[41] Per l’episodio del labirinto, per la riproduzione della xilografia e per l’interpretazione del labirinto stesso cfr. ed. critica Antenore, pp. 120-121, vol. II; il testo dell’episodio è a p. 116 del vol. I.

[42] Ed. critica Antenore (p. 24) avverte che si tratta dell’esemplare conservato nella Biblioteca Comunale di Verona (segnato IV F 15).

[43] FERRIGUTO, Almorò Barbaro. Il monumentale studio (512 pp.) del Ferriguto sull’umanista veneto Ermolao analizza con ampiezza e notevolissima documentazione la formazione culturale, la produzione, i rapporti con lo Studium patavino ed i suoi maestri. «Il Barbaro fu davvero un grandissimo preparatore di vie; e non è intorno a lui, tra la fine del quattro ed il principio del cinquecento, sorta veruna attività spirituale che non risenta l’influsso della sua opera e della sua riforma liberatrice. Pomponazzi, D. Zeno, T. Tasso, Giorgione, la filosofia, le scienze naturali, la poesia, le arti devono tutti, più o meno direttamente, qualche cosa alla ribellione di quest’uomo del ‘400. La mentalità e la spiritualità etnica dell’Italia settentrionale – strumento e pretesto il ritorno ai greci – si libera, con lui, dalla grave mora del medioevo arabo-teutone e trova, nell’opera sua, la forza necessaria a nuovi, svariati, liberi, voli» (p. 157). Per i rapporti tra la pittura di Giorgione, la nuova cultura umanistica (anche per l’analisi dei Tre filosofi), pp. 160-178. Per i rapporti con il duca di Urbino, soprattutto per motivi politici, pp. 440-441.

[44] In realtà nella lettera sopra riportata Stefanini non parla di metafisica: «più che di astratte concezioni metafisiche, debbo supporre si tratti di concrete rappresentazioni in cui quei concetti erano diventati immagine». Di certo, comunque, la interpretazione di Stefanini è “simbolica”, molto diversa da quella naturalistica di Ferriguto.

[45] Le pp. 165-166, e l’intero cap. VIII («Diffusione della “Teoria degli elementi” nel Rinascimento») sono dedicati all’analisi della diffusione della teoria degli elementi in ambiente veneto. La conclusione di Ferriguto è che la Tempesta è totalmente inserita in una visione naturalistica e fisica del mondo: «Quel dipingere una legge di natura dentro la natura, quell’includere nel vero visibile le manifestazioni e gli effetti d’un invisibile che lo regola, quell’inserire, in ciò che è calmo e par fermo, ciò che è vivo e si muove» (p. 165). È un’idea di cui lo studioso veronese è ben convinto e che espone nel lavoro su La fisica della Rinascenza e un soggetto d’un capolavoro.

[46] Archivio Stefanini, corrispondenza A. Ferriguto, Verona, 5 giugno 1943. Le sottolineature dell’estensore della lettera corrispondono ai nostri corsivi.

[47] Sulla complessità della lettura dei dipinti di Giorgione, e della Tempesta in particolare, si veda anche il recente catalogo della mostra tenutasi a Venezia, Gallerie dell’Accademia 1 novembre 2003-22 febbraio 2004: Giorgione. “Le maraviglie dell’arte”, a cura di G. NEPI SCIRÈ-S. ROSSI, Marsilio, Venezia 2003 a cui si rinvia anche per la bibliografia completa su Giorgione. È citato il saggio di Stefanini e sono riportati tutti i numerosi studi di Ferriguto. «Non c’è aggettivo squillante che non sia stato usato per magnificare la Tempesta, e soprattutto il suo paesaggio. Non c’è ambito o livello di cultura che non sia stato perlustrato alla ricerca del soggetto: racconto biblico, mito classico, leggenda cristiana, episodio letterario, vicenda storica, congiuntura politico-militare, concetto filosofico, allegoria ermetico alchemica, personificazione emblematica. C’è chi il soggetto nemmeno lo cerca, perché – dice – non c’è soggetto. E c’è chi sostiene che il soggetto è semplicemente la tempesta con la zingara e il soldato, ossia quello indicato da Michiel nel 1530 quando vede il quadro in casa di Gabriele Vendramin, anche lui incerto committente e sicuro collezionista, anche lui ricchissimo patrizio/mercante» (A. GENTILI, Tracce di Giorgione. La cultura ebraica e la scienza astrologica, in Giorgione, pp. 19-31, p. 26 per la citazione). Dello stesso autore cfr. anche Giorgione, (Art Dossier n. 148), Giunti, Firenze 1999.

[48] FERRIGUTO, Ancora dei soggetti di Giorgione, p. 407. Idea ben presente anche nella monografia su Giorgione, dove alla domanda se si dovesse dare un titolo preciso alla Tempesta, Ferriguto propone «“Il mondo elementare”, “Il mondo delle cose generabili e corruttibili”, “La sfera delle cose attive e passive”, “La vita sublunare”, “Le imitazioni della natura”. Che se vorremmo dire tutto questo in linguaggio moderno potremo, senza paura d’errare, intitolare il quadro “Lo scorrere della vita”, “Il trasmutare della natura terrena”» (FERRIGUTO, Attraverso i misteri di Giorgione, p. 159).

[49] I rilievi non sono marginali: è ben diverso, tra i due studiosi, anche il modo, storico, di considerare la cultura dei classici, quella medievale e quella umanistica. Si vedano ad esempio le considerazioni di Ferriguto sul rapporto Barbaro-Ficino: «Il Barbaro, amico di Ficino, è il suo vero antipodo intellettuale. Egli [il Barbaro] non tanto mira alla religione quanto alla scienza, non tanto a salvare il principio religioso dell’urto del pensiero antico, quanto a strappare il pensiero antico dalla tirannia del pensiero religioso, non tanto a spiritualizzare la natura (come il Ficino vorrebbe), quanto a conoscerla e a dominarla per se stessa; non a studiare Aristotele come introduzione a Platone, ma come avviamento allo studio diretto della natura e della vita, non alla “pia philosophia”, ma alla “rerum scientia”. Una preoccupazione etico-religiosa è sotto il platonismo del Ficino, una curiosità intellettuale sotto l’aristotelismo del Barbaro. Coscienza morale e mistica il primo, coscienza critica il secondo» (FERRIGUTO, Almorò Barbaro, p. 323). Considerazioni che possono essere facilmente confrontate con quanto pensi e dica Stefanini di Platone, Plotino e la mistica medievale, ad esempio nel suo Imaginismo, che supponiamo alla base di questo modo di interpretare anche il Giorgione (Imaginismo, pp. 161-171 e 177-188).

[50] Anche nel 1955, a pochi mesi dalla morte di Stefanini, l’ultima ristampa del saggio suscita il commento ammirato di Vittorio Cini: «Caro Stefanini, ho ricevuto il gentilissimo dono del Suo volumetto “Il motivo della ‘Tempesta’ di Giorgione”: e ho atteso finora a ringraziarLa perché ho voluto prima leggere il suo studio che mi si è presentato subito interessantissimo. E la lettura mi ha veramente appassionato. Mi pare che i riscontri che Lei ha stabilito tra il “Sogno di Polifilo” e la “Tempesta” del Giorgione siano veramente suggestivi. La descrizione della Venere Genitrice sembra prorio visualizzata nella figura femminile della Tempesta. E quanti particolari del paesaggio sono puntualmente fissati nelle pagine di Francesco Colonna! Grazie ancora del dono graditissimo! Con i più amichevoli saluti mi creda aff.mo Vittorio Cini» (Archivio Stefanini, corrispondenza Vittorio Cini, Venezia, 7 ottobre 1955; su carta intestata Vittorio Cini, Venezia).

[51] Cfr. cap. IX per la questione della cattedra di filosofia a Roma.

[52] «Il significato della presente memoria è consapevolmente limitato a manifestare quel “movente spirituale” o quel “nucleo generatore” che, come non può mai mancare nella comprensione dell’arte, così si aggiunge, come essenziale nota coesiva, nel godimento della eletta fattura del genio di Giorgione. La filologia non basta alla critica e al gusto; ma nemmeno il buon gusto e un’eletta sensibilità bastano alla critica ove questa non sia integrata dei sussidi ché rendono esperta la sensibilità e donano un’esatta comprensione del mondo spirituale di cui si nutre la vena dell’artista» (La tempesta di Giorgione e la Hypnerotomachia, p. 20).

[53] Fonti e bibliografia generale, a cura di D. FERRARA, in Giorgione, pp. 210-228.

[54] Dunque la lettera, datata Roma, 2 gennaio, senza indicazione dell’anno, potrebbe essere stata scritta nel gennaio 1943, visto che Paratore sostiene di essere stato trasferito a Torino dal dicembre ed il 1942 è, appunto, l’anno del suo trasferimento nell’università torinese (Cfr. nota infra). Paratore era intervenuto qualche anno prima in «Logos» (XVIII, 1935, pp. 329-350) con un saggio su Orazio: anche questo suo intervento nella rivista di Aliotta e Sciacca contribuisce a stabilire un legame tra lui e Stefanini.

[55] Archivio Stefanini, corrispondenza E. Paratore, Roma, 2 gennaio, senza indicazione dell’anno. Ettore Paratore, nato a Chieti nel 1907, insegna letteratura latina, come incaricato, a Messina nel periodo in cui anche Stefanini era presente nell’università siciliana. Paratore otterrà la cattedra all’Università di Catania dove insegnerà dal 1940 al 1942, per passare a Torino dal 1942 al 1948 e a Roma dal 1948 in poi (Enciclopedia Italiana, Appendice III, vol. 2 s.v.). La notizia dell’incarico messinese di Paratore e dell’ottimo ricordo che aveva lasciato nei colleghi è segnalata anche da D’ARCAIS, Intervista alla pedagogia, p. 42. La corrispondenza tra Paratore e Stefanini continuerà anche dopo la guerra e per la questione della cattedra di filosofia dell’Università di Roma (cfr. cap. IX).

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